Politica e propaganda
A 20 chilometri da Bari
La notte, il giorno, la paura e il sogno
Non ricordava un giorno in cui, al sorgere del sole, quella donna non fosse andata a trovarlo nello spoglio giaciglio e portando qualcosa che prendeva dal fuoco gli parlava e lo guardava con quello sguardo che mai, durante la vita, ne avrebbe trovato uno uguale. Ricordava la sua presenza quando, all’improvviso, nel nero della notte, ora quella luce come un fulmine solcava il cielo, ora quelle grida immonde, lo svegliavano dal sonno. La paura era tanta, ci conviveva con quella paura che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua esistenza. La paura era qualcosa che non poteva essere scacciata, allontanata, perché finita una ne prendeva forma un’altra, ma quello sguardo e quelle mani che gli accarezzavano il volto lo tranquillizzavano. Quante volte la paura, il terrore, si era impossessato di quel giovane uomo, quante volte sentiva nel petto quello strano battere e quante volte quella donna lo aveva soccorso. Una mattina, non ricorda quando e come, quella donna non lo visitò appena sveglio. Si alzò, stiracchio le membra ed uscì e fu allora che scoprì cosa quella notte fosse successo. Un gruppo di persone, indistinte, ma con volti familiari, circondava il corpo di quella donna che oramai non poteva più sorridere a quel giovane uomo. Era li, sdraiata, immobile; il suo petto, contrariamente al solito, rimaneva immobile, gli occhi chiusi, il viso sereno come se stesse dormendo. Ma ben presto capì che da quel sonno mai si sarebbe svegliata. Fu triste, molto triste allontanarsi da quel corpo, seppellirlo dove nessuno ne avrebbe potuto violarne la sacralità. Strane gocce uscivano dagli occhi di quel giovane uomo durante i giorni e i mesi a venire.
Ma una notte accadde l’impensabile. Quella donna che tante volte era venuta al capezzale, la vedeva lì, davanti a se che sorrideva e che gli porgeva qualcosa da mangiare. E lui, finito di assaporare quel cibo così tanto gustoso cominciò ad accarezzare quei capelli e prendendole le mani parlò così tanto da stancarsi.
Una luce accecante lo svegliò. Erano i primi raggi del sole che colpivano proprio diritto i suoi occhi. Si alzò con furia, girò e rigirò, ma della donna nessuna traccia. Rimase in silenzio, pensoso. Passavano i giorni. Aspettava che il sole calasse per adagiarsi sul proprio giaciglio in attesa della donna che ogni notte ritornò a fargli compagnia ora correndo per il prato, ora portandogli qualcosa da mangiare, ora accarezzandolo, ora parlandogli. Ma la mattina la donna scompariva e lui non sapeva darsene una ragione. Lui allora correva sul luogo di sepoltura e nulla sembrava dargli motivo di credere che fosse riuscita ad uscire da quella fossa ed allora come poteva essere vero che quella donna, sepolta sotto due metri di terra e che per nessun motivo avrebbe potuto mai uscire da quella fossa lui se la ritrovasse di fronte quando il sonno lo prendeva?
Ma cosa mai voleva significare quello che viveva quando si addormentava? La paura, una nuova paura, cominciò ad impossessarsi di quel giovane uomo.
Deve essere stata un’esperienza terrificante quella che avrà vissuto il primo essere umano scoprendo la paura e il sogno, il giorno e la notte.
Quali le ragioni di quelle strane visioni che vedono protagonisti i vivi con i morti? Ma la morte è solo qualcosa di fisico, di materiale? Quando moriamo muoiono anche le nostre passioni, i sentimenti provati, le gioie e le tristezze? E che fine fanno i nostri pensieri e le emozioni che abbiamo provato guardando quel tramonto mozzafiato oppure gli occhi della persona amata? E le paure continuano anche dopo la morte o cessano con essa?
Ma sarebbe possibile che la paura e il sogno siano le cause determinanti e scatenanti della nostra impagabile sete di potere che non vuol farci credere che nulla siamo in questo cosmo infinito e che l’utilizzo che la natura fa di noi e come quello strano fiore di campo che nasce, vive e secca al sole della normalità? Chi ha imposto all’uomo quella grandezza di cui si è impossessato e che, credendo di imporla alla natura, fa di noi degli esseri speciali?
Se non esistesse la paura ed il sogno, credete veramente che potrebbero esistere le credenze, le tradizioni, i riti coltivati da un gruppo di persone e poi tramandati da generazione in generazione?
Se fosse tutto naturale, tutto logico come logico sembra essere l’universo dovremmo aver bisogno di inventarci esseri superiori, divini, che vegliano su di noi?
Le verità nascoste – Il Paesello – 3° puntata
Venendo da nord prima di incontrare il paesello, quello a sud est della metropoli, si scorgeva, sulla destra un gran podere recintato da una lunga rete in metallo. La recinzione era inframmezzata da tante torri di forma ottagonale che diventano imponenti in prossimità del cancello di ingresso. Tale complesso racchiude tante costruzioni basse e di gran pregio. Qui avevano trovato la propria dimora ricchi cittadini provenienti dalla metropoli.
Giardini, piscine e tutti i confort possibili erano stati messi a disposizione di questi ricchi nobili. Almeno così nelle intenzioni.
Con il passare del tempo era diventato un agglomerato indistinto di abitazioni, scuro, lugubre e triste. Una inconsapevole malinconia regnava sovrana. Di fronte a tale podere, dall’altra parte della strada, facevano sfoggio di se le alte torri, queste non ottagonali, ai cui piedi una serie di lunghi fabbricati suddivisi in piccole botteghe vendevano merci di ogni tipo. C’è da dire che ultimamente alle solite scritte nella lingua corrente, si erano aggiunte botteghe e laboratori sormontate da scritte strane. Parevano geroglifici. Anche qui, una volta centro di commerci fiorenti, da un po’ di tempo tristezza, noia e povertà la facevano da padrone.
Proseguendo il cammino, sempre sul lato sinistro della strada maestra, sorge un enorme magazzino dove si vendeva di tutto. Potevi trovare pane fresco, uova, prosciutto, carne e tutto quello che un povero cristo avesse avuto voglia di trovarci. Qui, a differenza degli altri due insediamenti, la vita brulicava dal sorgere del sole sino al tramonto. Un gran andirivieni di gente, di diligenze, di cavalli e di biciclette. (Le biciclette dovevano essere ancora inventate, però).
Molti raggiungevano questo enorme magazzino a piedi e qualcuno, a volte, ci rimetteva la vita.
I ponti non erano illuminati, allora.
Tutti questi insediamenti costruiti non si sa come, non si sa perché, avrebbero causato al paesello tanti problemi. Tutti, ma proprio tutti, accusavano simili agglomerati come causa di mancanza di commercio e quindi di sopravvivenza per i poveri abitanti del paesello. Molti indigeni avevano trovato lavoro in questo grosso magazzino. Molti di loro si erano potuti sposare, avere figli, progredire. Ma questa è un’altra storia.
Trascorsero anni ed anni a discutere di come si fosse arrivati a quel punto, delle contromisure da prendere, ma ormai non c’era nulla da fare. Il danno era stato fatto e non si trovava la soluzione. Non si voleva trovare la soluzione.
Quello che lasciava interdetto il povero viandante era che, trovandosi a passare di lì, se si fosse fermato a parlare con gli abitanti del paesello, avrebbe constatato che secondo il pensare comune, la colpa dell’impoverimento del paesello era da attribuirsi a quelli della metropoli che erano venuti lì per i loro affari, non tenendo conto delle esigenze degli abitanti del paesello. Se il viandante si permetteva di ribattere che la colpa, se mai ci fosse stata, sarebbe stata da attribuire agli stessi abitanti del paesello, proprietari una volta di quegli immensi poderi dove poi sorsero questi tre grossi insediamenti, che per arricchimento personale, li avevano venduti a costruttori indefessi, l’abitante del paesello, detto indigeno, andava su tutte le furie e non voleva sapere ragione. La colpa era di quelli venuti da fuori, conosciuti come gli ospiti.
Finalmente, percorsi ancora poche decine di metri, si arrivava finalmente al paesello.
All’ingresso piante dedicate ai defunti ormai spoglie e secche, facevano mostra di se e più avanti una strana pietra tonda montata su un’armatura di ferro giaceva nella sua completa inutilità architettonica, sotto una lapide scritta in una lingua sconosciuta con evidenti errori grammaticali.
Il targhista, seguace dei barboni, aveva come compito primario quello di appiccicare targhe e lapidi in ogni dove. Figuratevi che volle intitolare una scuola ad un poeta che nessuno sapeva realmente dove fosse nato e non ad una povera ragazza morte in circostanze tristi e dolorose a cui venne intitolata quella scuola il giorno della posa della prima pietra. Un personaggio, il targhista, come gli altri mille personaggi che abitavano il paesello.
A prima vista sembrava un paesello come tanti: le case, pochi negozi, il più delle volte disordinati, sporchi e male organizzati, la piazza, le chiese, qualche albero sparuto. Anche nel paesello si trovavano in gran quantità gli ospiti. Non solo gl’indigeni ricchi proprietari di quei fondi immensi che sorgevano fuori dal paesello si erano arricchiti vendendoli a stranieri, ma anche piccoli proprietari indigeni di fondi più piccoli, promotori di interessi diffusi, si erano arricchiti facendo costruire enormi palazzoni abitati in prevalenza, anche questi, da ospiti, come li chiamavano loro. Nel giro di un ventennio, la popolazione del paesello era praticamente raddoppiata, ma aimè il paesello anche se dava l’impressione di essere un gran paese, durante molte ore della giornata sembrava disabitato.
Gli ospiti non ebbero mai vita facile nel paesello. Loro erano abituati a comprare le vettovaglie e il necessario nelle botteghe dove trovavano cortesia, qualità e prezzi vantaggiosi. Non si comportavano certamente come gli abitanti indigeni del paesello che sceglievano di spendere i loro denari in base alla parentela che li legava con il venditore o in base alla storicità della bottega stessa. Qualche ospite si permise di aprire botteghe anch’esso, ma erano destinate, nonostante risultassero meglio attrezzate, con prezzi più giusti, con merci migliori, al fallimento e alla disapprovazione collettiva.
Non era pensabile andare a spendere in quelle botteghe e non nelle loro.
Ma anche questo era falso.
Gli abitanti indigeni erano comunque e sempre diffidenti, non solo nei confronti degli ospiti, ma anche verso se stessi. Spesso ti capitava di sostare nella piazza centrale del paese e di fermarti a parlare con qualcuno di loro. Ti accorgevi che aveva salutato amabilmente un suo paesano, indigeno come lui e subito dopo cominciava una sequela di improperi e pettegolezzi nei confronti di quello che lentamente si allontanava, che lasciavano senza parole. Ti raccontava che il padre, ma anche la madre e i figli e il cugino avevano fatto questo e quello, che si erano comportati male, che avevano detto…… Fratelli contro fratelli, padri contro figli, madri e figlie contro tutti, sorelle contro cugine, mariti contro mogli, insomma, tutti contro tutti.
Nel paesello vi erano una moltitudine di cugini. Non credo ci fosse un altro luogo al mondo in cui tutti erano cugini gli uni degli altri. Strano, ma vero.
Insomma, in quel paese tutto avrebbe potuto regnare, ma non l’armonia e la solidarietà. Anche quelli dei paesi vicini erano non degni degli abitanti del paesello. Sembrava che nessuno, in nessun campo e per nessuna ragione avrebbe potuto competere con loro.
Tutte le loro disgrazie erano gli ospiti e non alcuni di loro, nativi, che conoscevano molto bene però, che avevano reso “invitante” il paese per quelli che del paese non erano. E come se pretendessero che gli ospiti dovessero venire al paesello, lasciare tutti i loro averi ed andare via. Se qualche ospite, dopo decenni che aveva lasciato i tributi al paesello, che in qualche modo lo avesse reso più ricco, si permetteva anche di dare una semplice idea solo per rendere più accattivante una semplice festa di piazza, giù gli improperi, gl’inviti ad abbandonare subito l’abitato e raggiungere immediatamente le porte della città. Porte della città che rimanevano sempre aperte, sia di giorno che di notte con nessuno che le presidiasse.
Avevano vissuto di pastorizia, erano coltivatori indefessi e riuscivano anche a produrre ottimi prodotti, ma non sapevano cogliere sufficiente ricchezza dal duro lavoro. Si accontentavano di vendere i loro prodotti più pregiati a carovanieri che esportavano tali bontà in tutto il mondo. Avevano tentato, si racconta, di mettersi assieme per formare una sorta di famiglia allargata di coltivatori, ma per le ragioni esposte prima, diffidenza, astio, rancori secolari, tutte le forma di società erano destinate a fallire. Anche per questo gli ospiti consigliavano forme di aggregazione al fine di rendere il territorio più ricco, ma non c’era nulla da fare. Si accontentavano di recuperare a male pena quanto speso in sementi senza voler assolutamente progredire.
Era uno strano paesello quel paesello a sud est della metropoli.
La piazza ed il corso, raccontavano i più vecchi del paese, una volta erano mete di giovani che venivano da ogni dove per corteggiare le belle figliole che abitavano il paesello. Quanti amori sbocciati lungo quel corso, quante vasche, quanti gelati, quanta allegria. Ma oggi, di tutto quel trambusto, di tutta quella sana e giovane allegria solo il ricordo. In piazza potevi trovarci i vecchietti, che ormai stanchi, attendevano il tramonto seduti alle sedie o alle poche, sporche e rotte panchine. Di giovani, a parte i bambini che la popolavano in estate per una sana e divertente partita a pallone, neanche l’ombra. Non vi erano giardini, o meglio, ville, come le chiamavano i paesani, dove i bambini potessero andare a giocare, che continuavano a rompere le scatole in piazza o dove una palla potesse ruzzolare per qualche metro senza trovare impedimenti. Il corso, anch’esso meta desiderata di tutti per la passeggiata, oggi risultava deserto e lugubre. Non vi erano luoghi per incontrarsi, per bere un buon bicchiere di vino, conversare, leggere un libro, guardare uno spettacolo. Non vi erano teatri in quel paesello. O meglio, un teatro c’era, ma si era pensato bene di buttarlo giù per far sorgere nuove case, che il più delle volte rimanevano vuote. Si costruiva molto e probabilmente c’erano molte, moltissime case in più di quelle che effettivamente ne servissero.
Ma se non volevano che gli ospiti occupassero il loro paesello perché mai continuavano a costruire così tanto? Più il paese si allargava e più i problemi aumentavano. Più strade, più spese, più manutenzioni, insomma, un controsenso completo. Ma bisognava costruire, costruire, costruire. Sembrava che le costruzioni avessero preso la meglio sulla vera sana natura del paesello. Eppure quel paese di bellezze ne aveva tante. Ma ristrutturazioni strane avevano fatto si che croci di rilevanza storica fossero sistemate nei sottoscala, che pavimenti di pregio venissero sostituiti da pietre di scarso valore, che castelli abbandonati a se stessi fossero mete di razzie che ne rubavano le bellezze. Piazzette molto belle aggiustate alla meno peggio forse per agevolare alcuni e poi il mastodontico e bellissimo monastero. Le erbacce, l’incuria e l’abbandono regnavano sovrane. Ma erano gli ospiti che dovevano andar via e non loro che avevano permesso nei secoli tale scempio. Eppure, sempre indigeni avevano rivestito le cariche più alte nel governo cittadino, sempre qualcuno di loro aveva la responsabilità, non solo politica, ma soprattutto morale di quello che continuamente avveniva. La città vecchia, anch’essa bella nella struttura e nella forma, abbandonata a se stessa con qualcuno fermamente convinto che il recupero sarebbe stato possibile solo attraverso una mano di vernice blu. Vi ricordate la scuola che doveva essere abbattuta e che una mano di vernice poteva salvarla? Ma non bastava certamente una mano di calce colorata per nascondere lo scempio che del paesello avevano fatto gli indigeni. Non parliamo poi delle scuole; anch’esse sistemate alla meno peggio in botteghe alla strada.
Sagre e feste per i prodotti tipici fuori stagione; sembrava quasi che le sagre e le feste si organizzassero per svuotare magazzini e botteghe di prodotti vecchi per dar spazio ai nuovi.
Ma non si poteva parlare, non si potevano dare suggerimenti: bisognava subire in silenzio e mosca.
Era un paese che si accontentava, era un paese che mai avrebbe ricercato il meglio perché il meglio non cercava neanche mai di raggiungerlo.
La cosa strana che accadeva regolarmente era che se aveste voluto incontrare qualche paesano, bene, lo avreste sicuramente incontrato non al paesello, ma nei paesi e/o nelle città vicine. Lì andavano per chiacchierare, per passeggiare per vedere una rappresentazione teatrale. Lì si recavano per uscire con i propri amori, con i propri figli, con i propri amici. Nel paesello no.
Non c’era peraltro la possibilità.
Gli ospiti, probabilmente, avevano costretto i poveri cristi del paesello ad evolversi in fretta. Il passaggio dal medioevo all’età moderna è stato lungo nella storia, ma in quel paesello, ancorato a vecchi schemi, era stato troppo veloce ed i risultati erano sotto gli occhi di tutti. Come per gli abitanti del paesello e per gli abitanti di tutti i paeselli e città, c’erano quelli bravi e quelli che bravi non erano. Sarebbe superfluo affermare che anche fra gli ospiti tali differenze erano conclamate. Ma il discrimine per gli abitanti del paesello non era la suddivisione fra bravi e non bravi, ma tra indigeni ed ospiti.
Ci si potrebbe ancora soffermare sul paesello, sulle contraddizioni che lo animavano, ma le elezioni incombevano e le liste cominciavano a prendere forma.
Che strano paesello quel paesello a sud est della metropoli.
Che strano paesello quel paesello pieno di risorse e di potenzialità che gli indigeni stavano distruggendo.
(Tratto dalla mente giocherellona e skizzata di Maurizio Saliani e quindi con nessun riferimento alla realtà, passata, presente e futura. Riferimenti, personaggi, circostanze, accadimenti puramente immaginari. Lo scritto è frutto di una traduzione dal negresco antico).
Le verità nascoste – Il sindaco (e le amministrazioni precedenti) – 2° puntata
Che strano paesello era quel paesello a sud est della metropoli.
Tre anni prima della caduta del sindaco che aveva come peggior nemico se stesso (per convenzione da questo momento lo chiameremo destro), era caduto un altro sindaco, detto “il professore” (per convenzione lo chiameremo sinistro).
Bene, vi sembrerà strano, ma anche “il professore” sinistro era caduto nello stesso modo del successore (destro):
un documento, una firma e via.
Un disonore inimmaginabile.
Quella volta “l’omicidio” si consumò non nella metropoli, ma in un paesello vicino, Gioioso.
Anche quella volta, se la memoria non mi tradisce, erano presenti tanti uomini ed una donna sola.
Anche quella volta nessuno passò per la cassa.
Strana storia quella del sindaco professore.
Neanche le fontane e neppure le palestre aperte, ma chiuse, riuscirono nell’intento.
Per non parlare delle pacche sulle spalle.
Certo per il “professore”, amante delle anatre al sugo e buongustaio dal fine palato, la storia era iniziata male, molto male. Risultò sindaco ma con una maggioranza non sua. Volle ad ogni costo provare a governare ma sarebbe stata opera di illustre statista quella di mettere insieme, almeno a parole, anime diverse.
Impresa che riuscì, qualche tempo dopo, ma a livello nazionale, al segretario del suo partito sinistro che attraverso una sortita politica spregiudicata, riuscì prima ad impossessarsi del partito stesso, e poi, attraverso il gioco delle tre carte, ad imporre al Paese un governo rappresentativo degli opposti(?).
Il famoso patto imperiale nazionale.
Un governo che rappresentava la tesi e le contro tesi; tutti insieme appassionatamente.
Ma sei i cittadini della Repubblica non riuscirono a capirne il fine, perché mai quei poveri cristi del paesello avrebbero dovuto capire le logiche di tale politica? Figuratevi che anche quelli conosciuti come gli antagonisti, poi, antagonisti a che, non mossero un dito per il proprio rappresentante che sedette stabilmente, sino alla fine, al governo cittadino.
Ma questa è un’altra storia.
Andiamo con ordine, torniamo ai giorni nostri.
La storia di destro.
La campagna elettorale fu al fulmicotone.
Si presentarono vari schieramenti:
il primo, destro, cappeggiato dal sindaco che aveva come miglior nemico se stesso e che raccattò al suo interno anche quegli uomini e quelle donne che parteciparono attivamente al governo del sindaco sinistro, il “professore”, seguiti questi da vari esponenti più o meno presenti nella vita politica del paesello con all’interno strani personaggi che non si è mai capito realmente cosa volessero (?) e a cosa aspirassero veramente (?). Questo gruppo politico, in seguito guidato da architetti portatori di interessi collettivi, sempre presente, ma sempre non determinante nelle scelte(?), diventò ben presto come la “ragazza immagine” che si usa per un po’ di audience in più.
La televisione non era stata neanche inventata a quel tempo.
Insomma, quella che fai accomodare sulla sedia, a cui imponi di far intravedere un po’ di coscia lunga e che se caso mai dovesse proferir parola tanto sai che non se la fila nessuno.
Il secondo, quello dello schieramento del “professore”, sinistro, volle, fortissimamente volle, presentare alla carica un uomo, presentato come il nuovo che avanza, che di nuovo, in quella campagna elettorale, ma non solo, aveva il vestito nuovo, comprato proprio per l’occasione.
Fu così che lo schieramento di sinistro perse a favore di quello di destro.
Ma questo sulla carta.
Chi e cosa rappresentasse il sinistro o il destro, neanche se ritornassero al mondo illustri scienziati di fama internazionale, riuscirebbero a capirlo.
Fece la comparsa anche, in quella dura(?) e combattiva(?) campagna elettorale, anche un gruppo di uomini e donne, che nonostante legami “di sangue” ed esperienze pluridecennali con il palazzo, avevano la pretesa di passare sopra quell’insulso “scontro” sinistro destro. Loro, gli indipendentisti, erano veramente il nuovo, loro volevano veramente il cambiamento, loro i depositari di interessi collettivi e non particolari.
La storia riporta alle cronache altre faccende.
Fra questa estenuante ed inefficace lotta fra destro e sinistro, c’erano anche i sinistri. Una formazione che si tradì da sola nelle false promesse di un omino che era per tutti catalizzatore di idee nuove e innovative ma che, nonostante ad ogni tornata elettorale incarnasse i panni del salvatore della patria, non mancava mai di ritirarsi sempre all’ultimo momento.
Questione di stile e di coerenza (sic).
E così, l’omino che sarebbe diventato sindaco avendo contro anche se stesso, vinse le elezioni e cominciò a governare(?).
“Erano gli amici che avrebbero dovuto controllarne l’azione di governo”, dissero in seguito sostenitori, forse loro malgrado, dell’omino divenuto sindaco.
Ma se solo ed unicamente un’immagine potesse rappresentare i tre anni di questo sindaco, basterebbe soffermarsi al primo consiglio comunale.
Il primo consiglio comunale, non si sa per quale scopo, forse per dimostrare alla cittadinanza la trasparenza del palazzo, si tenne in piazza e fu un clamoroso autogol. Per tutti.
A proposito di autogol, si precisa che a quel tempo il gioco del pallone non era stato ancora inventato e la moviola non si sapeva neanche cosa fosse.
I cittadini seduti ed in piedi affollavano la piazza e loro, i consiglieri, sedevano al tavolo.
Il consiglio non poteva iniziare perché, udite udite, mancavano all’appello consiglieri di maggioranza. Il sindaco cominciò a telefonare a destra e a manca, ma non riusciva a comunicare con gli assenti. Nel frattempo strane e colorate bandiere, inneggianti ai barboni, facevano bella mostra di se in piazza, fra risolini e sarcasmo generale. Il targhista e i suoi adepti, da ogni dove, erano giunti sin là. I consiglieri di maggioranza erano agitati perché le cariche che quell’assise avrebbe dovuto eleggere dovevano essere concordate, ma concordia non ci fu. Pensate che ad un certo punto mancò addirittura il numero legale per continuare la seduta, ma ci pensò l’opposizione, ospite non pagante, a garantirne la legittimità.
Fu in quell’occasione che il vestito nuovo del candidato sindaco sinistro si procurò la prima macchiolina. Ne avrebbe fatto incetta di macchioline quel povero abito nuovo.
Differenza fra destro e sinistro, questa la differenza(?).
E poi vennero le deleghe fatte e ritirate, e poi venne l’aumento delle tasse attraverso le accise che qualcuno si chiese se si dovessero applicare anche ai lumini dei defunti.
(Bisogna dire che la scomparsa prematura di un uomo chiave dell’amministrazione di destro aveva aperto scenari inimmaginabili).
Le defenestrazioni, le cacciate di tutti, il reintegro di alcuni, la lotta senza quartiere a tutto e a tutti ed altre mille e mille castronerie, malissimo gestite, che portarono alla santa alleanza ed alla cacciata del sindaco.
Ma la cittadinanza, assente, stanca, orba e per nulla attiva, non si accorgeva che il paesello continuava il suo lento ed inesorabile cammino verso il ciglio del baratro. Strade al limite della praticabilità, attività commerciali allo stremo, rifiuti che solo grazie al buon Dio (per chi ci crede), non raggiunsero i primi piani delle case, attività culturali completamente assenti, insomma, una comunità allo sbando.
La lotta contro un colosso della distribuzione occupò la cronaca politica per parecchio tempo. Una lotta condotta fuori tempo massimo e completamente fuori della realtà, non certo per le ragioni che ne motivavano la presa di coscienza, ma perché gestita malissimo e senza costrutto, come peraltro erano gli uomini sulle cui gambe si montava la protesta. Presenti al governo cittadino per decenni, ma sempre silenti.
Non si ricordava a memoria d’uomo una presa ufficiale di critica nei confronti del “colosso della distribuzione”.
Il solito discorso che tutti, ma proprio tutti, applicavano sempre e comunque a chiunque criticasse o si accingesse a criticare l’operato degli “indigeni” (così alcuni paesani presenti da generazioni e generazioni nel paesello volevano essere chiamati, mentre tutti gli altri, anche dopo decenni di permanenza nel paesello stesso, rimanevano ospiti, nonostante avessero comprato case dagli indigeni, facendoli arricchire e che regolarmente pagavano tutti i tributi) riguardava la permanenza degli ospiti:
“Accetta sempre e comunque qualsiasi cosa il paesello e i buoni pastori decidono per te e se hai voglia di criticare, quella è la porta”.
(Ma questo sarà argomento di un prossimo capitolo).
E così alla corte del sindaco cominciarono ad affacciarsi omini e donnine di ogni risma, tutti portatori di buone idee, di cambiamento, di innovazione. Fra le altre cose venne vietato, attraverso atti che ben presto ebbero rilevanza imperiale, che si parlasse del degrado che circondava il paesello. Fu vietato di parlar male degli amministratori che non riparavano le strade, che rilasciavano permessi per l’apertura di nuove ali del “colosso” (quello che si combatteva), lo stesso giorno dell’inaugurazione, di recuperi architettonici (?) che nulla avevano di recupero e di architettonico, insomma bisognava rimanere in silenzio ed anche un semplice “quadro” diventava pericoloso.
Venne in aiuto un indigeno pastorello, abituato a gestire un enorme gregge di pecorelle, che attraverso una campagna di stampa massicciamente seguita sin fuori i confini del paesello, ripeteva stancamente che tutto andava per il meglio, che finalmente si ripartiva e che l’omino destro divenuto sindaco, era il meglio possibile che si potesse immaginare.
Neanche le morti erano più menzionate, al paesello, comprese quelle accadute su ponti non illuminati e pericolosi.
Il sindaco fece di tutto: tasse, balzelli, strade sterrate, rifiuti vaganti, servizi assenti, ma i cittadini non capirono e continuarono a sostenerlo lo stesso. Dopo tutti questi innumerevoli tentativi per essere esiliato dal paese, il sindaco cominciò a studiare altri modi. Gli venne facile, con lo studio, “attaccare” le scuole. Non tutte, solo quelle comunali. Sapete, come poi avvenuto anche altrove, si facevano mancare fondi per le scuole comunali a favore di quelle provinciali.
Tasse e balzelli per quelle mie a favore di quelle che mie non sono.
Ma ancora una volta i cittadini, così tanto oberati di lavoro, non capivano, nicchiavano, anzi erano felici di dar lustro al loro paesello attraverso una scuola nata non si sa come, arredata con mezzi di fortuna avuti in prestito e che ben presto cominciò a perdere gli studenti che meritavano sicuramente altra sistemazione.
A quei tempi, pensate un po’, le scuole di solito chiudevano a giugno e riaprivano a settembre.
Il sindaco escogitò un sistema infallibile per essere finalmente posto in esilio.
Si era accorto, attraverso il ritrovamento di vecchi papiri trovati per caso nei sotterranei della corte, in cui si asseriva che una scuola, dato il suo cattivo stato di salute, dovesse essere abbattuta per far spazio ad una nuova costruzione. Ma qualcuno gli suggerì che una mano di vernice potesse risolvere il problema e avrebbe fatto si che i cittadini, visto l’impegno del sindaco destro e della sua corte ai lavori, avrebbe portato lustro alla sua azione di governo.
Ma la mano di vernice non bastò e l’abbattimento divenne così prioritario.
Diede notizia di tutto ciò, non durante il periodo di chiusura della scuola (in questo caso si sarebbe potuto agire rapidamente), ma solo qualche giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico. A scanso di equivoci, tali pergamene ritrovate dal sindaco, risultano ancora oggi, sconosciute. Ci fu un gran fuggi fuggi per trovare una nuova sistemazione per i piccoli frequentatori di quella scuola, innescando, inevitabilmente, una valanga di problemi sulle altre scuole. Doppi turni, orari ridotti, ulteriore traffico di diligenze fra una scuola e l’altra, spostamenti repentini dei genitori: insomma un caos.
Ma neanche questo riuscì a smuovere il cittadino indigeno. Troppo assonnato per svegliarsi improvvisamente.
Ma questo sarà argomento per un ulteriore capitolo.
Vogliamo ricordare il sindaco quando spesso ripeteva a coloro i quali gli muovevano accuse o domande che la colpa di tutto erano state le amministrazioni precedenti dimenticando che egli stesso per decenni aveva poggiato il proprio sacro deretano sulle seggiole occupate dai governanti del paesello.
Anche destro, come peraltro già successo al sinistro, nonostante tutto, cadde:
un documento una firma e via.
No brick, no party.
(Tratto dalla mente giocherellona e skizzata di Maurizio Saliani e quindi con nessun riferimento alla realtà, passata, presente e futura. Riferimenti, circostanze, accadimenti puramente immaginari).
Le verità nascoste – La santa alleanza – 1° puntata
Quel venerdì avrebbe segnato la vita di un uomo e con essa, quella del paesello.
Quella bella giornata, in cui il sole accarezzava la pelle e i cui raggi invitavano ancora ad un tuffo nelle fresche acque del mare, avrebbe segnato per sempre quell’omino sempre allegro, sempre disposto alla promessa che sapeva di non poter mantenere, che lottava contro tutti e contro tutto pur di lasciare un segno del suo passaggio.
Un uomo il cui suo peggior nemico, scoprì in seguito, essere se stesso.
Un gruppo di persone affollava un angolo del centralissimo Corso Vittorio Emanuele nella metropoli vicina al paesello.
La particolarità del gruppo era rappresentata dal fatto che nove uomini circondavano una tenera e piccola donna. Qualcuno fumava nervosamente, qualcuno controllava il cellulare, qualcuno vedeva l’orario. Sembravano in attesa di qualcosa.
Alla loro destra potevano ammirare il Margherita, storico cine teatro, ancora, dopo decenni, non completamente ristrutturato. Alla loro sinistra si potevano scorgere le bandiere del Comune con di fronte il Palazzo del Governo. Di fronte a loro l’ingresso nella città vecchia e le palme che fanno bella mostra di se in quel tratto di strada.
Non erano arrivati all’appuntamento tutti assieme.
Non avrebbero potuto.
Si erano divisi in gruppo e il ritardo di un gruppo aveva fatto sorgere dubbi e angosce in quelli arrivati prima. Si cominciarono ad interrogare se ancora una volta l’appuntamento fosse saltato e se quel venerdì non fosse il venerdì decisivo.
Ma l’arrivo in lontananza dei ritardatari fugò ogni dubbio. L’ultima sigaretta, l’ultimo saluto frettoloso e scomparvero nel portone.
Ne uscirono quasi subito.
Le operazioni non durarono a lungo. Era già tutto pronto.
Un documento, una firma e tutto era finito.
Sembra, i ricordi si affievoliscono con il tempo e diventano confusi, che nessuno passò per la cassa.
Non ci fu bisogno neanche del classico caffè per sciogliere l’incontro. Tutto si era svolto nel migliore dei modi e tutti tornarono alle loro cose, chi a scuola, chi nello studio, chi a casa. Mentre i gruppi si ridividevano esattamente così come erano arrivati, ognuno pensava alla notte appena trascorsa.
Telefonate, appuntamenti, insonnia, ultimi avvisi. Solo una la parola d’ordine.
Silenzio.
Al paesello la gente viveva la propria giornata come sempre. Quasi niente faceva presagire quello che lì a qualche momento si sarebbe abbattuto sulle anime pie di quei poveri cristiani. Molti pensavano di ritornare al mare quel sabato e domenica successive. L’estate era stata una strana estate; piogge, allagamenti, freddo e caldo tropicale. Un’estate da ricordare.
Agli angoli dei bar solito tran tran, solite chiacchiere, soliti visi. Per le strade solite facce. Eppur a guardar meglio si sarebbero potuti scorgere su quei volti i segni dell’attesa. Di quell’attesa che non avrebbe sicuramente sopportato l’ennesima sciagurata delusione.
Strano il destino, sarebbe stato anche lì Corso Vittorio Emanuele testimone incolpevole.
Qualcuno facente parte di quei gruppi che avevamo incontrato nella metropoli, parcheggia l’auto, scende custodendo fra le mani dei fogli protetti da una copertina trasparente. Qualcuno timidamente si avvicina, tenta l’approccio, vuole sapere cosa stia avvenendo. La stampa, anch’essa informata non si sa da chi, non si sa come, si accosta, chiede, interroga.
Niente.
Bisogna aspettare colui il quale è salito, bisogna aspettare l’atto ufficiale.
Qualcuno passa con l’auto, qualcuno l’auto l’ha parcheggiata e aspetta sul marciapiede, lì, vicino al bar. Qualcuno, capendo che qualcosa di “grosso” sta succedendo, imbraccia la macchina fotografica, qualcuno accende il sigaro, qualcuno telefona in silenzio. Come l’ansia che ti prende mentre aspetti che la tua compagna, là in sala parto, mette alla luce il frutto del vostro amore, è dipinto il volto di quegli uomini (donne non ve ne sono).
Eccolo, scende per strada, tutti lo circondano tutti vogliono vedere, vogliono toccare quei fogli, vogliono leggere.
Tutto è compiuto.
Le firme leggibili.
La data “12 settembre …..” è chiara, come è chiaro l’orario:”ore 10,36”.
Il paesello non ha più il proprio sindaco.
Ma perché, cosa era successo, cosa aveva determinato quella scelta?
I più intimi, quelli che avevano seguito l’onta dell’ormai ex sindaco e che l’avevano seguito sino alla fine, ricevettero la notizia chi attraverso una foto pubblicata sul volto sul libro, chi attraverso una telefonata di sfottò e chi, come il povero Gino, in diretta, mentre si apprestava a salire sul Comune che ora lo riconosceva solo come semplice cittadino.
Qualcuno da lontano ricevette la telefonata e anche se non conosciamo le parole possiamo senza ombra di dubbio interpretare lo stato d’animo che lo pervase tutto. I piani erano falliti e non sarebbe stato lui a determinare la caduta o la rinascita dell’omino che triste e sconsolato, non riuscendo a capire il perché di tanto astio nei suoi confronti, si affrettava a sistemare le ultime carte nello studio per uscire, per vedere, per capire.
Qualcuno festeggiò, qualcuno ordinò bottiglie di prosecco che questa volta dovette pagare.
Stranamente non si verificò quella strana circostanza che aveva visto il gruppo che si era appena ritirato dalla metropoli e che aveva apposto la propria sacra firma su quei fogli consegnati al paesello, passare dalla cassa senza pagare.
Alcuni, nonostante ritenessero la fine del sindaco necessaria ed inevitabile, non festeggiarono.
Altri problemi si sarebbero da li a poco presentati e per tali problemi una risoluzione sarebbe stata, a questo punto, non solo auspicabile, ma necessaria.
Fra quelle 9 persone che erano state chiamate a “mettere” una firma, rappresentanti di schieramenti ostili(?) e belligeranti(?), la santa alleanza era terminata.
Si racconta che il targhista, cominciò a girare e rigirare per il paesello fotografando le targhe da lui apposte per paura che con la caduta del sindaco si facesse piazza pulite anche di quelle.
Come la storia di quello che seduto alla cassa della pompa di benzina (quale non è dato sapere), e vedendo la foto su volto sul libro, chiamò terrorizzato il comune per chiedere cosa volesse significare.
E quell’altro, che tutti credevano non potesse mancare all’appuntamento alla metropoli, apprendere la notizia con sbigottimento.
Non lo avevano neanche chiamato per informarlo.
Aveva ricambiato schieramento da qualche giorno. Tempismo perfetto. Eppure le criticità nei confronti del sindaco le aveva manifestate in ogni dove, ma nonostante tutto nessuno si fidò di lui per apporre la firma sull’atto. Troppo “pauroso” il ragazzo.
E poi, tutti gli altri.
Il giovane che non seppe esprimere al meglio le capacità per le deleghe troppo misere per cui era stato scelto, come se deleghe che potessero determinare appalti per milioni fossero misere. O quello che insieme al sindaco aveva sostenuto che per rendere sicure le scuole basta una mano di vernice e se questa non basta, l’abbattimento.
Poi vi erano quelli che servivano per far numero, come quegli invitati che chiamiamo alla nostra tavola perché non vogliamo essere in 13.
Una cosa è certa in questa triste storia.
I cittadini non sanno e forse non sapranno mai, ma il 12 settembre dell’anno domini …. alle ore 10 e 37 minuti, iniziò la campagna elettorale.
Anime perse
Tempo fa, un anziano seduto ad un tavolo di una taverna, mi raccontò la storia di alcune anime di uomini, donne e bambini, che ogni notte si aggiravano nelle viuzze strette ed anguste di un vecchio paesello. Non davano fastidio a nessuno, ma le si vedeva sempre più spesso spuntare sulle teste di quegli uomini che continuano, dopo tanti e tanti anni, a non consentire loro di riposare in pace.
Eccone la storia.
Si racconta, che tanti anni fa, in un paese abbarbicato su una collinetta, non molto distante dal mare, quattro amici, Oscar, Fedro, Ermegildo e Nereo, erano seduti al tavolo di una vecchia taverna. Sorseggiando del vino discorrevano dei lavori che ormai da tempo interessavano l’unica chiesa che il paese avesse. Ad un tavolo non lontano dal loro sedeva un uomo che ascoltava interessato le chiacchiere dei quattro amici. Quella tranquilla e piacevole giornata da li a poco, sarebbe stata una giornata che nessuno avrebbe più dimenticato.
Trottorellando, il cane Ciubillo, che il padrone Oscar lasciava libero di scorazzare per tutto il paese, si avvicinò al suo padrone tenendo stretto fra le possenti mandibole, un osso. Grande fu la sorpresa del padrone alla vista di Ciubillo con quell’oggetto stretto fra i denti. Dopo la solita ramanzina che il padrone soleva fare al cane, il quale era stato educato a non prendere nulla che il padrone non volesse, Oscar si accorse che si trattava di un osso umano. Un femore. Dopo un primo momento di smarrimento e di incredulità, Oscar, accompagnato da Fedro, Ermegildo e Nereo, suoi amici di una vita, invitò Ciubillo ad accompagnarli sul luogo del ritrovamento.
Anche l’uomo li seguì.
Una volta raggiunto il luogo, impervio, pieno di tanta erba alta fra alberi ormai vicini all’estinzione, gli amici si trovarono di fronte ad uno spettacolo che ricordava i racconti di Edgar Allan Poe oppure di Howard Phillips Lovecraft. Dalle pieghe di un costone si intravedeva un sacco parzialmente interrato contenente qualcosa che, con i raggi del sole a picco, sbrilluccicava. Gli amici si avvicinarono sempre più e si accorsero che Ciubillo, tornato sul luogo in cui giocando aveva ritrovato quel femore, ricominciò a scavare con le sue grandi zampe. Gli amici, con mezzi di fortuna, riuscirono a tirar fuori il sacco imprigionato dalla terra. Con stupore misto a paura si resero conto che quel sacco conteneva tanti piccoli sacchetti, alcuni dei quali rotti. Quei sacchetti conservavano al loro interno ossa umane.
Ogni sacchetto conteneva i resti mortali di quelli che erano stati uomini, donne e bambini. Gli amici si guardarono sbigottiti ed impauriti senza sapere cosa fare e per paura di possibili maledizioni ed incantesimi, decisero che per prima cosa avrebbero dovuto informare della cosa il curato. Trovarono il curato nei pressi della sacrestia impegnato a dirigere e controllare i lavori che, dopo tanti anni dall’incarico che aveva ricevuto dal Vescovo in cui era stato destinato a curare le anime in quel paesello, si era prefissato di realizzare per ammodernare quella chiesa ormai troppo vecchia e fatiscente per operare al meglio la sua missione. Non tutti i fedeli avevano considerato quei lavori necessari, ma anche se avevano tentato timidamente di contrastarli anche quando il curato aveva deciso di spostare l’enorme croce, si erano rasseganti, ed aspettavano fiduciosi la fine dei lavori. Oscar, impaurito, con il cappellaccio in mano, seguito dai suoi amici e dall’uomo che li aveva seguiti ed osservava senza essere visto, raccontò al curato di quello strano ritrovamento. Il curato non sembrò sorpreso dal racconto di Oscar e cominciando ad elencare una serie di maledizioni e sventure che potevano abbattersi sugli abitanti del paesello per aver portato alla luce quello che sarebbe dovuto rimanere sotto terra, invitò gli amici a riseppellire quei resti mortali e, senza neanche segnalarne la presenza attraverso qualsivoglia segno, pregare e dimenticare.
Gli amici si congedarono dal curato ed andarono via. L’uomo, allontanandosi per non essere visto, girò attorno alla chiesa quando la sua attenzione venne catturata dalla voce del curato che chiamava a gran voce il capomastro. Si fermò in prossimità di una angusta finestra ed attese l’arrivo dell’uomo. Appena arrivò il curato gli disse: ”Cosa abbiamo fatto!”. Il capomastro, rattristato e preoccupato da quelle parole, senza dire nulla, lasciò la stanza. Il curato, inginocchiatosi sulle freddi chianche prendendosi la testa fra le mani, cominciò a pregare.
L’uomo misterioso, che aveva ascoltato tutto, pulì con cura i pince-nez, li poggio sul naso, tirò fuori un taccuino, inumidì la punta della matita e scrisse qualcosa.
Quell’uomo era stato inviato dal governatorato della regione per redigere un documento attraverso il quale si potesse o no concedere il permesso per costruire un enorme fondaco che il sindaco del paesello voleva far costruire ad un suo amico. Quest’amico, molto ricco e potente, così potente che da anni molti dei suoi affari si svolgevano all’interno del paesello, aveva trovato nel sindaco un ottimo alleato per realizzarli. Ancora oggi, dopo tanti e tanti anni, se potessimo chiedere agli abitanti di quel paesello, se ancora fossero in vita, se anche il sindaco avesse qualcosa da guadagnare in quegli affari, saremmo certi che non troveremmo risposta.
Quel costone dove gli amici avevano ritrovato quel sacco contenente tanti sacchetti più piccoli, ricolmi di ossa umane, era proprio al centro dell’area interessata alla costruzione dell’enorme fondaco.
Oscar, Fedro, Ermegildo e Nereo tornarono in quel terreno: tremanti, impauriti, quasi terrorizzati, coprirono con delle pietre quell’enorme sacco e dopo aver pregato, tornarono verso quei bicchieri di vino lasciati su quella tavola alla taverna e che il caldo sole aveva reso imbevibili.
Il giorno dopo si rividero e confidandosi l’un l’altro quello che le mogli di tutti e quattro, la sera a casa, consigliassero, decisero di confessare il ritrovamento al sindaco del paese. Il sindaco, anch’esso apparentemente meravigliato dalla notizia, dopo un sopraluogo al costone e dopo aver parlato con il curato, autorizzò lo spostamento di quei poveri resti mortali nei sotterranei del cimitero.
L’uomo misteriosamente comparso in quei giorni, altrettanto misteriosamente scomparve. Il grande fondaco fu costruito e l’amico del sindaco riuscì nell’intento di moltiplicare il proprio patrimonio.
Trascorsero tanti anni ancora. Tanti anni in cui il ricordo di quella giornata così tanto particolare e strana per quel paesello, ormai era custodita solo nella memoria di qualche anziano che continuava ancora a sedere in quella taverna rimasta immutata.
Ormai, anche il cimitero di quel paesello, dopo tanti e tanti anni, versava in condizioni pietose e bisognoso di lavori. Si era provveduto a puntellare le parti che sembrava dovessero cadere da un momento all’altro e per tanti anni questo era bastato a scongiurare il pericolo di crolli. La parte del cimitero che rischiava il crollo, nascondeva al proprio interno, nelle viscere della terra, il luogo in cui quei sacchetti pieni di quei poveri resti umani, ritrovati anni e anni prima su quel costone, avevano finalmente trovato riposo.
Poi un giorno accadde l’impensabile. Il sindaco del paesello, che apparteneva ad una famiglia sempre in lotta con la famiglia del sindaco di tanti anni prima che aveva autorizzato lo spostamento di quelle ossa ritrovate, ma anch’esso amico di una famiglia che per tanti e tanti anni aveva fatto affari nel paese, decise che quei lavori al cimitero dovessero essere fatti al più presto. C’era pericolo di crollo imminente e così, facendo finta di rimanere sbigottito e meravigliato dal ritrovamento di ossa umane all’interno di un cimitero, autorizzò in fretta e furia i lavori e mettendo mano alle casse comunali provvide a spostare di nuovo quelle povere ossa che ormai trascorsi decenni non trovavano pace.
E fu così, che dopo tanti anni da quegli avvenimenti, è spiegata la presenza di quelle anime, che perso il rispetto dovuto ai morti, continuano a vagare per il paesello alla ricerca della verità. Se si fosse ritrovato quel taccuino di quell’uomo misterioso inviato dal governatorato della regione, probabilmente la verità sarebbe stata svelata e, se non la giustizia degli uomini, almeno quella dei morti, sarebbe soddisfatta.
Intanto, il popolo, artefice della propria sventura, continuava ad occupare i tavoli della vecchia taverna senza la forza di reagire.
“Il racconto breve “Anime perse” è frutto della fantasticheria di Saliani Maurizio
e quindi ogni riferimento a persone, nomi, circostanze, somiglianze o fatti realmente accaduti è puramente casuale”.
A Peppino Impastato
Caro Peppino,
dal’9 maggio 1978 molte cose sono cambiate. Per prima cosa vogliamo dirti che abbiamo aspettato 23 anni perché si ricostruisse finalmente la realtà e che non ti eri “suicidato” su quei binari mettendo sotto il tuo corpo una carica di tritolo. Abbiamo aspettato due decenni per avere il riconoscimento, attraverso le aule di giustizia, che i mandanti e gli esecutori del Tuo omicidio erano da ricercarsi fra quegli uomini che avevi sempre combattuto e cercato di osteggiare nella Tua breve ma intensa vita, mettendo in discussione anche il Tuo cognome scomodo per quello che ha rappresentato in Sicilia.
Molte cose sono cambiate, caro Peppino.
Sono cambiati, i socialisti, i marxisti-leninisti, la Lega, il Manifesto. Vedi, la Tua odissea politica e i Tuoi ideali oggi qualcuno vorrebbe che si rimuovessero e che si cancellasse con un colpo di spugna quelli che per Te ieri, e per noi oggi, dovrebbero e sono il motore che spinge l’uomo verso l’emancipazione ricercata ma mai raggiunta. I socialisti oggi sono passati con i governi di destra, i marxisti-leninisti di ieri hanno fatto in fretta a cambiare nome, a non riconoscersi più nei valori del Comunismo e a collaborare con le forze più reazionarie di questo Paese per annientare, non solo politicamente, quelli che Comunisti lo sono ancora; la Tua Lega oggi resiste ancora in qualche foto sbiadita dal tempo ma se dovessi chiedere a qualche ragazzotto di oggi ti risponderebbe che è quella organizzazione politica, setta la chiamiamo Noi, che vorrebbe che il Meridione d’Italia finisse sotto dieci metri di terra, che i fratelli e le sorelle che dal Sud del Mondo, fuggendo dai propri Paesi, vengono qui da noi con ogni mezzo pagando un sacrificio e un prezzo altissimo per poter vivere, fossero rimandati indietro magari senza neanche sbarcare da quei barconi della vergogna; il Manifesto si chiede oggi se ancora si può definire “giornale comunista”.
Tanto è cambiato e tanto si cerca ancora di cambiare: si cerca da ogni parte politica e culturale di affermare che le “classi”, quelle conosciute da Noi, quelle descritte dai Nostri Padri, non esistono più e che la sovranità popolare può e deve essere sospesa. Vari governi hanno attraversato questi decenni e vari uomini sono stati chiamati a svolgere questo compito. Abbiamo avuto mafiosi, piduisti, affaristi, ricchi senza scrupoli, indagati, prescritti ma gli uomini e le donne di questo Paese, nonostante la verità fosse lì a portata di mano, continuavano e continuano a dire che nulla è possibile e che quella Rivoluzione non solo culturale e politica per l’emancipazione di cui parlavamo prima non è attuabile. Lasciamo a Te il giudizio su quegli uomini che sostengono che oggi la rivoluzione dovrebbe essere gentile e che nella poesia delle cose è da ricercare la “retta via”. La rivoluzione che conosciamo Noi non è distribuire confetti dolci con all’interno cioccolato nero fondente; la Rivoluzione che conosciamo Noi è quella di rifondare le coscienze del popolo che abbiamo il dovere di proteggere. La Tua adesione alle frange più estreme della sinistra, come quella a Lotta Continua, dimostra che anche ieri, come oggi, ci deve essere data la possibilità di poter manifestare il Nostro dissenso senza per questo essere tacciati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Ci deve essere data la possibilità di richiedere un tavolo dove poter discutere se una ferrovia è necessaria e utile per tutti o solo per quei poteri forti che ne richiedono la realizzazione. La mafia oggi non è più riconoscibile dalla “coppola nera” e da fucile a canne mozze. Oggi la mafia veste in doppiopetto blu, siede stabilmente nel Parlamento, nelle aule consiliari di molti Comuni italiani, dirige università, banche, governi. Il malaffare è parte integrante di questo Paese, di questo Mondo e sta lì per decidere le sorti dell’umanità intera. C’è un piccolo problema, caro Peppino, la maggioranza degli uomini e delle donne è come Te, come Noi: ci accomuna l’essere comunisti, ci accomuna l’appartenere alla stessa classe, quella del proletariato, alla classe che è contro il capitalismo, quella che vorrebbe essere lasciata libera almeno di manifestare, mettere nella bacheca aziendale il giornale in cui crede, votare liberamente il sindacato che più li rappresenta, avere la possibilità di lavorare e di poter guardare negli occhi i propri figli e di non vergognarsi se non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, quella che vorrebbe almeno avere la possibilità di poter credere che il Capo dello Stato non vada in visita in una città della Repubblica transennata e militarizzata affinchè il disagio non abbia a manifestarsi, quella che crede che la Falce e il Martello siano ancora un simbolo che rappresenta i più deboli, i diseredati, e che il rosso è, e sempre lo sarà, il colore che ci tiene tutti in vita, come il sangue che lo rappresenta tutto, tiene in vita Te con Noi. Il giorno in cui venivi assassinato Bruno Vespa dal Suo TG1 piangeva l’amico di cui avevano ritrovato il corpo, e tutti erano impegnati a ricordarne la figura e l’alto profilo da statista dimenticandosi che un Nostro Figlio, un Nostro Fratello, veniva trucidato su un binario a Cinisi. Ed è ancora lì, il “giornalista” con le sue inchieste, con i suoi plastici, con le sue ricostruzioni, con i suoi eroi, a raccontarci di un Paese che non esiste, di una realtà stravolta e travolta dagli accadimenti che tutti conosciamo. E mentre il Presidente del Consiglio fa “cucu” da dietro una colonna, oppure si intrattiene con minorenni “scollacciate”, o pretende ed ottiene che si legiferi per salvarlo dalla galera, la democrazia viene sospesa e “il Grigio” continua a stangare il proletariato, i più poveri, quelli che avrebbero bisogno di tutto e cedendo al fascino di coloro i quali dicono che tutto questo è necessario per il bene del Paese e dell’Europa, continuano a dargli credito. E’ vero che gli strumenti per capire quali e quante verità sono taciute e che la menzogna e la mistificazione della realtà, spesso complici anche quegli uomini e quelle donne che dovrebbero essere a Noi più vicini, non sono dati a disposizione di tutti, ed è per questo che il Nostro impegno dovrà e deve essere totale, al fine di evitare il continuo massacro incondizionato del Nostro compito.
Caro Peppino, quello che più ci fa rabbia e che molte volte il Tuo nome e il Tuo esempio siano strumentali nelle mani di quei soggetti che definendosi “politici”, si servono del Tuo nome solo ed unicamente per riempirsi la bocca di cose che non capiscono e che non hanno mai compreso. Crediamo che per rispettare il Tuo nome non servano manifestazioni commemorative fini e se stesse: serve l’agire politico quotidiano, il prendere posizione sui temi cari ed urgenti della Nostra storia, l’ambiente non solo come sottrazione della terra a favore di un incontrollato ed incondizionato pannello fotovoltaico o considerarlo come scarico di cloaca immenso e senza regole, o considerarlo tutto come edificabile e che non siano rispettate le regole del vivere civile, dei beni comuni che non possano essere considerati società per azioni con centinaia di consigli di amministrazione con conseguenti spartizioni di posizione. Insomma, questa dovrebbe essere la Nostra Rivoluzione, quella che accanto al Popolo che dovremmo rappresentare ogni giorno star lì pazientemente ma fermamente a spiegare quelle che sono le Nostre ragioni, il Nostro impegno per una società comunista. Le differenze ci sono fra Noi e gli altri, e sarebbe puerile e infingardo affermare che non ci siano. Non facciamo parte di quella schiera di ex che oggi, vergognandosi di essere appartenuti ad un Partito che all’interno del proprio nome aveva il sostantivo COMUNISTA, fanno di tutto per rimuovere il loro passato. Siamo sicuri lo facciano perchè probabilmente comunisti non lo sono stati mai e vorremmo dire anche a quelli che oggi fanno fatica, pur essendo all’interno di un Partito Comunista, lavorare per esso in forma limpida senza avere l’alibi di affermare che le differenze con gli altri non ci sono e che tutto è superabile e trascurabile, che non rappresentano i comunisti. Crediamo che tutti debbano avere la facoltà di scelta e debbano avere gli strumenti per poter stabilire le differenze che ci sono tra i comunisti e quelli che comunisti non sono, affinchè nelle inevitabili alleanze per governare la cosa comune, i nostri sostenitori sappiano quello che possono e devono aspettarsi da Noi. Il mettere tutto nel calderone senza che vi sia una politica seria, senza ambiguità e con la massima chiarezza senza marcarne i margini, ci porterebbe inevitabilmente a confonderci con quelli che nonostante dicano essere di “sinistra” ambiscono agli scranni del grande Partito popolare europeo e mondiale. L’essere comunista implica grosse responsabilità e grande impegno. L’impegno di guardare ogni giorno quello che avviene, sentire i bisogni della gente, agire ogni giorno affinchè anche le contraddizioni di un piccolo ma determinante luogo di “potere” come un Consiglio Comunale, possano essere combattute con l’esempio dell’impegno politico. Non sottrarsi mai dalla responsabilità di rimarcare con forza i vari soprusi che anche attraverso il perverso gioco della democrazia, oggi solo al servizio dei più forti, si serve della stessa per poter continuamente calpestare i diritti dei più.
Per questo, caro Peppino, con questa lettera vogliamo comunicarTi che ci impegneremo sino alla fine affinchè il nostro contributo a raccontare la verità e la nostra visione del mondo attraverso “Radio aut” sia costante, limpido e lontano da quelle logiche e da quelle vocazioni non più sopite di qualcuno che vorrebbe i comunisti un’altra cosa.
Hasta siempre compagno Peppino