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L’abete di Hans Christian Andersen

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In mezzo al bosco si trovava un grazioso alberello di abete che aveva per sé parecchio spazio, prendeva il sole, aveva aria a sufficienza, e tutt’intorno crescevano molti suoi compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una gran fretta di crescere.

Non pensava affatto al caldo sole né all’aria fresca, né si preoccupava dei figli dei contadini che passavano di lì chiacchierando quando andavano a raccogliere fragole o lamponi. Spesso arrivavano con il cestino pieno zeppo di fragole oppure le tenevano intrecciate con fili di paglia, si sedevano vicino all’alberello e esclamavano:

«Oh, com’è carino così piccolo!» ma all’albero dispiaceva molto sentirlo.

L’anno dopo il tronco gli si era allungato, e l’anno successivo era diventato ancora più lungo; guardandone la costituzione si può sempre capire quanti anni ha un abete.

«Oh! se solo fossi grosso come gli altri alberi!» sospirava l’alberello «potrei allargare per bene i miei rami e con la cima ammirare il vasto mondo! gli uccelli costruirebbero i loro nidi tra i miei rami e quando c’è vento potrei dondolarmi solennemente, come fanno tutti gli altri.»

E non si godeva affatto né il sole, né gli uccelli o le nuvole rosse che mattina e sera gli passavano sopra.
Quand’era inverno e la neve brillava bianchissima tutt’intorno, arrivava spesso una lepre e con un salto si posava proprio sopra l’alberello. “Che noia!”

Ma dopo due inverni l’albero era così grande che la lepre dovette limitarsi a girargli intorno.

“Oh! crescere, crescere, diventare grosso e vecchio, è l’unica cosa bella di questo mondo” pensava l’albero.

In autunno giunsero i taglialegna per abbattere alcuni degli alberi più grandi; questo accadeva ogni anno e il giovane abete, che ormai era ben cresciuto, rabbrividiva al pensiero di quei grandi e meravigliosi alberi che cadevano a terra con un fragore incredibile. I loro rami venivano strappati, così restavano lì nudi, esili e magri che quasi non si riconoscevano più, poi venivano messi sui carri e i cavalli li portavano fuori dal bosco.
Dove erano diretti? Che cosa ne sarebbe stato di loro?
In primavera, quando giunsero la rondine e la cicogna, l’albero chiese: «Sapete forse dove sono stati portati? Non li avete incontrati?».
La rondine non sapeva nulla, ma la cicogna sembrò riflettere un po’, poi fece cenno col capo e disse: «Sì, credo di sì! Ho incontrato molte nuove navi, mentre tornavo dall’Egitto; avevano alberi maestri magnifici: immagino fossero loro, dato che odoravano di abete. Posso assicurarvi che erano magnifici, davvero magnifici!».

«Oh, se anch’io fossi abbastanza grande da andare per il mare! Ma com’è poi in realtà questo mare, e a cosa assomiglia?»
«È troppo lungo da spiegare!» rispose la cicogna andandosene.
«Rallegrati per la giovinezza!» dissero i raggi di sole. «Rallegrati per la tua crescita, per la giovane vita che è in te!»
Il vento baciò l’albero e la rugiada riversò su di lui le sue lacrime, ma l’albero non riuscì a capire.


Quando si avvicinarono le feste natalizie, vennero abbattuti giovani alberelli, che non erano ancora grandi e vecchi come quell’abete, che non riusciva a avere pace e voleva sempre partire. Questi alberelli, che erano stati scelti tra i più belli, conservarono i loro rami e vennero messi sui carri che i cavalli trascinarono fuori dal bosco.

«Dove vanno?» chiese l’abete «non sono più grandi di me, anzi ce n’era uno che era molto più piccolo. Perché conservano i rami? Dove sono diretti?»

«Noi lo sappiamo! Noi lo sappiamo!» cinguettarono i passerotti «abbiamo curiosato attraverso i vetri delle finestre, in città. Sappiamo dove vengono portati! Ricevono una ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili! Abbiamo visto attraverso le finestre che vengono piantati in mezzo a una stanza riscaldata e decorati con le cose più belle, mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di candeline!»

«E poi?» domandò l’abete agitando i rami «e poi? Che cosa succede dopo?»

«Non abbiamo visto altro. Ma era meraviglioso!»

«Magari sarò anch’io destinato a seguire quel destino splendente!» si rallegrò l’abete. «E è molto meglio che andare per mare. Che nostalgia! Se solo fosse Natale! Ormai sono alto e sviluppato come gli alberi che erano stati portati via l’anno scorso. Potessi essere già sul carro! E nella stanza riscaldata con quello sfarzo e quella ricchezza! e poi? Poi succederanno cose ancora più belle, più meravigliose; altrimenti perché mi decorerebbero? Deve succedere qualcosa di più importante, di più straordinario, ma che cosa? Come soffro! che nostalgia! Non so neppure io che cosa mi succede!»
«Rallegrati con me!» dissero l’aria e la luce del sole «goditi la tua gioventù qui all’aperto!»

Ma lui non gioiva affatto. Cresceva continuamente e restava verde sia d’estate che d’inverno, di un verde scuro, e la gente che lo vedeva esclamava: «Che bell’albero!».

Verso Natale fu il primo albero a essere abbattuto. La scure penetrò in profondità nel midollo; l’albero cadde a terra con un sospiro, sentì un dolore, un languore che non gli fece pensare a nessuna felicità era triste perché doveva abbandonare la sua casa, la zolla da cui era spuntato.

Sapeva bene che non avrebbe più rivisto i vecchi e cari compagni, i piccoli cespugli e i fiorellini che stavano intorno a lui, e forse neppure gli uccelli. La partenza non fu certo una cosa piacevole.

L’albero si riprese solo mentre veniva scaricato con gli altri alberi, quando udì esclamare: «Questo è magnifico! Lo dobbiamo usare senz’altro!».

Giunsero due camerieri in ghingheri che portarono l’abete in una grande sala molto bella.

Tutt’intorno, sulle pareti, pendevano ritratti e vicino a una grande stufa di maiolica si trovavano vasi cinesi con leoni sul coperchio. C’erano sedie a dondolo divani ricoperti di seta, grossi tavoli sommersi da libri illustrati e da giocattoli che valevano cento volte cento talleri, come dicevano i bambini. L’abete venne messo in piedi in un secchio di sabbia, ma nessuno vide che era un secchio, perché era stato ricoperto di stoffa verde e era stato messo su un grosso tappeto a vari colori. Come tremava l’albero! Che cosa sarebbe accaduto? I camerieri e le signorine lo decorarono. Su un ramo pendevano piccole reti ricavate dalla carta colorata; ognuna era stata riempita di caramelle. Pendevano anche mele e noci dorate, che sembravano quasi cresciute dai rami. Poi vennero fissate ai rami più di cento candeline bianche rosse e blu. Bambole che sembravano vere, e che l’abete non aveva mai visto prima d’allora, dondolavano tra il verde. In cima venne posta una grande stella fatta con la stagnola dorata; era proprio meravigliosa.
«Questa sera!» esclamarono tutti «questa sera deve splendere!»
“Fosse già sera!” pensò l’albero “se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i passerotti voleranno fino alla finestra? Forse metterò radici qui e resterò decorato estate e inverno!”

Sì! ne sapeva davvero poco! ma gli era venuto mal di corteccia per la nostalgia, e il mal di corteccia è fastidioso per un albero come lo è il mal testa per noi.

Finalmente vennero accese le candele. Che splendore, che magnificenza! L’albero tremava con tutti i suoi rami finché una candelina appiccò fuoco al verde. Che dolore!
«Dio ci protegga!» gridarono le signorine e subito spensero la fiamma.
Ora l’albero non osava neppure più tremare. Che tortura! Aveva una gran paura di perdere qualche parte del suo addobbo, e era molto turbato per tutto quello sfarzo. Si aprirono i due battenti della porta e una quantità di bambini si precipitò nella stanza, sembrava quasi che volessero rovesciare l’albero. Gli adulti li seguirono con prudenza; i piccoli si azzittirono, ma solo per un attimo, poi gridarono nuovamente di gioia facendo tremare tutta la casa. Ballarono intorno all’albero e tolsero, uno dopo l’altro, tutti i regali.
“Che cosa fanno?” pensò l’albero. “Che succede?” Intanto le candele bruciarono fino ai rami, e man mano che si consumarono vennero spente. Poi i bambini ebbero il permesso di disfare l’albero. Gli si precipitarono contro con tale veemenza che l’albero sentì scricchiolare tutti i rami. Se non fosse stato fissato al soffitto con la stella dorata si sarebbe certamente rovesciato.

I bambini gli saltellavano intorno coi loro magnifici giocattoli. Nessuno guardò più l’albero, eccetto la vecchia bambinaia che curiosò tra le foglie per vedere se era stato dimenticato un fico secco o una mela.

«Una storia! Una storia!» gridarono i bambini trascinando un signore piccoletto ma robusto verso l’albero. Lui vi si sedette proprio sotto e disse: «Adesso siamo nel bosco, e anche l’albero farebbe bene a ascoltare! Comunque racconterò solo una storia. Volete quella di Ivede-Avede o quella di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa?».
«Ivede-Avede!» gridarono alcuni; «Klumpe-Dumpe» gridarono altri. Fu un grido solo e solo l’albero se ne stette zitto a pensare: “Non posso partecipare anch’io? Non posso far più nulla?.”

In realtà aveva già partecipato e fatto la parte che gli spettava.
L’uomo raccontò la storia di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa; i bambini batterono le mani e gridarono: «Racconta, racconta!». Volevano sentire anche quella di Ivede-Avede, ma fu raccontata solo la storia di Klumpe-Dumpe. L’abete se ne stava zitto e pensieroso; gli uccelli del bosco non avevano mai raccontato storie del genere.

Klumpe-Dumpe che cade dalle scale e sposa la principessa! Certo: è così che va il mondo! concluse l’albero, credendo che tutto fosse vero, dato che era stato raccontato da un uomo così per bene. “Certo! Chi può mai saperlo? Forse cadrò anch’io dalle scale e sposerò una principessa!”. E si rallegrò al pensiero che il giorno dopo sarebbe stato decorato di nuovo con candele, giocattoli, e frutta dorata.
“Domani non tremerò!” pensò. “Voglio proprio godermi tutto quello splendore. Domani sentirò ancora la storia di Klumpe-Dumpe e forse anche quella di Ivede-Avede.”
L’albero restò fermo a pensare per tutta la notte.
Il mattino dopo entrarono il cameriere e la domestica.
«Adesso ricomincia la festa!” pensò l’albero; invece lo trascinarono fuori dalla stanza, su per le scale fino in soffitta e lo misero in un angolo buio dove non arrivava neanche un filo di luce. “Che significa!?” pensò l’albero. “Che cosa faccio qui? Che cosa posso ascoltare da qua?” Si appoggiò al muro e continuò a pensare. Di tempo ne aveva, passarono giorni e notti e nessuno venne lassù, quando finalmente comparve qualcuno, fu solo per posare delle casse in un angolo. L’albero era ormai nascosto, si poteva pensare che fosse stato dimenticato.
“Adesso è inverno là fuori!» pensò l’albero. “La terra è dura e coperta di neve. Gli uomini non potrebbero ripiantarmi, per questo devo rimanere al riparo fino a primavera. Che ottima idea! Come sono bravi gli uomini! Se solo qui non fosse così buio ed io non fossi così solo! Non c’è neppure una piccola lepre! Invece era proprio bello nel bosco quando c’era la neve e la lepre mi passava vicino. Sì, anche quando mi saltava sopra ma allora non mi piaceva. Qui invece c’è una solitudine terribile!”
«Pi! Pi!» esclamò un topolino proprio in quel momento e saltò fuori. Subito dopo ne uscì un altro. Fiutarono l’abete e si infilarono tra i rami.

«Fa un freddo tremendo!» dissero i topolini. «Se non fosse per questo freddo, si starebbe bene qui! Non è vero, vecchio abete?»
«Non sono affatto vecchio!» replicò l’abete. «Ce ne sono molti che sono più vecchi di me!»

«Da dove vieni?» gli chiesero i topolini «e che cosa sai?» Erano infatti terribilmente curiosi. «Raccontaci del posto più bello della terra! Ci sei stato? Sei stato nella dispensa dove c’è il formaggio sugli scaffali e i prosciutti pendono dai soffitto, dove si balla sulle candele di sego, dove si arriva magri e si esce grassi?»

«Non lo conosco!» rispose l’albero «ma conosco il bosco, dove splende il sole e dove gli uccelli cinguettano!» e così raccontò della sua gioventù, e i topolini non avevano mai sentito nulla di simile, così lo ascoltarono attentamente e poi dissero: «Oh! Tu hai visto molto! come sei stato felice!».
«Io?» esclamò l’abete, pensando a quello che raccontava. «Sì, in fondo sono stati bei tempi!» poi raccontò della sera di Natale, di quando era stato addobbato con dolci e candeline.
«Oh!» esclamarono i topolini «come sei stato felice, vecchio abete!»
«Non sono per niente vecchio!» rispose l’albero. «Sono venuto via dal bosco quest’inverno! Sono nell’età migliore, ho solo terminato la crescita!»

«Come racconti bene!» gli dissero i topolini, e la notte dopo ritornarono con altri quattro topolini che volevano sentire il racconto dell’albero; e quanto più raccontava, tanto più chiaramente si ricordava tutto e pensava: “Erano proprio bei tempi! Ma ritorneranno, ritorneranno! Klumpe-Dumpe cadde dalle scale e ebbe la principessa; forse anch’io ne sposerò una” e intanto pensava ad una piccola e graziosa betulla che cresceva nel bosco e che per l’abete era come una bella principessa.
«Chi è Klumpe-Dumpe?» chiesero i topolini, e l’abete raccontò tutta la storia; ricordava ogni parola e i topolini erano pronti a saltare in cima all’albero per il divertimento. La notte successiva vennero molti più topi e la domenica giunsero persino due ratti; ma dissero che la storia non era divertente e questo rattristò i topolini che pure, da allora, la trovarono meno divertente.
«Lei conosce solo questa storia?» chiesero i ratti.
«Solo questa!» rispose l’albero «la sentii durante la serata più felice della mia vita, ma in quel momento non capii quanto era felice.»
«È una storia veramente brutta! Non ne conosce qualcuna sulla carne e sulle candele di sego? O sulla dispensa?»
«No!» rispose l’albero.

«Ah, allora grazie!» dissero i ratti e si ritirarono.
Anche i topolini alla fine scomparvero e allora l’albero sospirò: «Era molto bello quando si sedevano intorno a me, quei vispi topolini, e ascoltavano i miei racconti. Adesso è finito anche questo! Ma devo ricordarmi di divertirmi, quando uscirò di qui!».
Che successe invece? Ah, sì! Una mattina presto giunse della gente a rovistare in soffitta. La casse vennero spostate e l’albero fu tirato fuori, lo gettarono senza alcuna cura sul pavimento e subito un cameriere lo trascinò verso le scale dove arrivava la luce del sole.
“Ora ricomincia la vita!” pensò l’albero, che sentì l’aria fresca e il primo raggio di sole. E così si ritrovò nel cortile. Tutto accadde così in fretta che l’albero non si accorse neppure del suo aspetto; c’era tanto da vedere tutt’intorno. Il cortile confinava con un giardino che era tutto fiorito, le rose pendevano fresche e profumate dalla bassa ringhiera, i tigli erano fioriti e le rondini volavano lì intorno e dicevano: «Kvirre-virre-vit, è arrivato mio marito!» ma non si riferivano all’abete.
«Adesso voglio vivere!» gridò lui pieno di gioia e allargò i rami, oh! erano tutti gialli e appassiti; e lui si trovava in un angolo tra ortiche e erbacce; ma la stella di carta dorata era ancora al suo posto e brillava al sole.

Nel cortile stavano giocando alcuni di quegli allegri bambini che a Natale avevano ballato intorno all’albero e ne erano stati tanto felici. Uno dei più piccoli corse a strappare la stella d’oro dall’albero.
«Guarda cosa c’è ancora su questo vecchio e brutto albero di Natale!» disse, e cominciò a pestare i rami che scricchiolarono sotto i suoi stivaletti.

L’albero guardò quegli splendidi fiori e quella freschezza del giardino, poi guardò se stesso e desiderò di essere rimasto in quell’angolo buio della soffitta. Pensò alla sua gioventù passata nel bosco, alla divertente notte di Natale, e ai topolini che erano così felici di aver sentito la storia di Klumpe-Dumpe.
«Finito! finito!» esclamò il povero albero. «Se almeno mi fossi rallegrato quando potevo! finito! finito!»
Il cameriere sopraggiunse e tagliò l’albero in piccoli pezzi e ne fece un fascio. Come bruciò bene sotto il grande paiolo; sospirava profondamente e ogni sospiro sembrava una piccola esplosione; attratti da quegli scoppi, i bambini che stavano giocando accorsero e si misero davanti al fuoco e, guardandolo, gridarono: «Pif-pof!», ma a ogni crepitio, che era per lui un sospiro profondo, l’albero ripensava a un giorno d’estate nel bosco, a una notte d’inverno quando le stelle brillavano nel cielo, alla notte di Natale e a Klumpe-Dumpe, l’unica storia che aveva sentito e che sapeva raccontare. E intanto si era consumato tutto.
I bambini ripresero a giocare nel cortile e il più piccolo si era messo al petto la stella dorata che l’albero aveva portato nella serata più felice della sua vita; ora questa era finita, e anche l’albero era finito, e così anche la storia: finita, finita, come tutte le storie.

 

I figli di Babbo Natale di Italo Calvino

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Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.

Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un’acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.


Mentre il capo dell’Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l’idea: l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.

Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.

In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra “tredicesima mensilità” e “ore straordinarie”. Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio.

Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un po’ come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.

Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio. La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria.

La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. “Dapprincipio, – pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo!”
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. – Ciao papà.

Marcovaldo ci rimase male.

-Mah… Non vedete come sono vestito?

– E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no?

– E m’avete riconosciuto subito?

– Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te! – E il cognato della portinaia! – E il padre dei gemelli che stanno di fronte! – E lo zio di Ernestina quella con le trecce! – Tutti vestiti da Babbo Natale? – chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
– Certo, tal quale come te, uffa, – risposero i bambini, – da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, – e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.

Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano più.

Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S’erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. – Si può sapere cosa state complottando? – chiese Marcovaldo.
– Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.

– Regali per chi?

– Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.

– Ma chi ve l’ha detto?

– C’è nel libro di lettura.

Marcovaldo stava per dire: “Siete voi i bambini poveri!”, ma durante quella settimana s’era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: – Bambini poveri non ne esistono più!

S’alzò Michelino e chiese: – È per questo, papà, che non ci porti regali?

Marcovaldo si sentí stringere il cuore. – Ora devo guadagnare degli straordinari, – disse in fretta, – e poi ve li porto.
– Li guadagni come? – chiese Filippetto.

– Portando dei regali, – fece Marcovaldo.

– A noi?

– No, ad altri.

– Perché non a noi? Faresti prima..

Marcovaldo cercò di spiegare: – Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?

– No.

– Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d’esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. – Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, – disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
– Andiamo, forse troverò un bambino povero, – disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.

Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle Feste.

E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all’altro segnato sull’elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase: – La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.

Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.

Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. – Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
– La Sbav augura…

– Be’, portate qua, – e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d’occhi, andava dietro al padre.

La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
– Gianfranco, su, Gianfranco, – disse la governante, – hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
– Trecentododici, – sospirò il bambino – senz’alzare gli occhi dal libro. – Metta lí.

– È il trecentododicesimo regalo che arriva, – disse la governante. – Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
– Papà, quel bambino è un bambino povero? – chiese Michelino.

Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s’affrettò a protestare: – Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator…
S’interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.

“Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l’ha scambiato per me e gli è andato dietro…” Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po’ in pensiero e non vedeva l’ora di tornare a casa.

A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
– Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato?

– A casa, a prendere i regali… Si, i regali per quel bambino povero…
– Eh! Chi? – Quello che se ne stava cosi triste.. – quello della villa con l’albero di Natale…

– A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?

– Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!

– Figuriamoci! – disse Marcovaldo. – Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!

– Sí, sí dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano…

– E cos’erano?

– Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…
– E lui?

– Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
– Come?

– Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…

– Cos’era?

– Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza…

Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…

– Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?
– Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto più felice. Diceva: “I fiammiferi non me li lasciano mai toccare!” Ha cominciato ad accenderli, e… – E… – …ha dato fuoco a tutto!

Marcovaldo aveva le mani nei capelli. – Sono rovinato!
L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale.
– Alt! – gli dissero, – scaricare tutto; subito!

“Ci siamo!” si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
– Presto! Bisogna sostituire i pacchi! – dissero i Capiufficio. – L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
– Cosi tutt’a un tratto… – commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima…

– È stata una scoperta improvvisa del presidente, – spiegò un altro. – Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi…

– Quel che più conta, – aggiunse il terzo, – è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino… Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell’entusiasmo…

– Ma questo bambino, – chiese Marcovaldo con un filo di voce, – ha distrutto veramente molta roba?

– Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata…

Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.

Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.

Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.

È qua? È là? no, è un po’ più in là?

Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

Italo Calvino

(In copertina un’immagine di Sto (Sergio Tofano) Mondadori 1963)

Sonata a Kreutzer

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Molteplici le interpretazioni di Sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj Nikolaevič: maschilismo, gelosia, uxoricidio: perdonatemi l’ossimoro, ma ho letto di un misogino che ama le donne e che senza la donna amata non può vivere.

Il perdono che implora Pozdnysev al viaggiatore conosciuto in treno a cui affida la sua lunga confessione provoca sgomento e lacrime. Bollare questo romanzo breve di Lev Tolstoj come secondario rispetto al grande lascito dell’autore è inopportuno. E’ l’analisi cruda ed ancora attuale, di quanto possa diventare un’unione coniugale che degenera gradualmente in insofferenza, avversione e odio. Odio che prende il posto di quell’amore che nella buona e nella cattiva sorte condisce con ipocrisia il giuramento. Litigi che nascono per caso, senza nessuna apparente ragione, ma solo perché ora lei, ora lui, danno a quelle parole dette in libertà l’interpretazione più conveniente al fine di portarla a termine quella discussione che nasconde quello che la ragione bollerebbe come puerile ed inutile. Litigio che il più delle volte vede colpire là dove la sensibilità è più esposta con l’immancabile fuga ora nella stanza dei figli oppure nel più classico rifugio della casa materna.

Fu la moglie di Tolstoj, Sonia, che per allontanare da se la vergogna di quel romanzo autobiografico del marito che metteva in piazza particolari che l’avrebbero potuta offendere, si appellò personalmente allo zar affinché non ne autorizzasse la pubblicazione. E non bastò l’appendice che l’autore decise di redigere per approfondire il suo pensiero e far si che quello scritto si scrollasse di dosso l’immoralità del tempo. Nel frattempo la Chiesa lo scomunicava, i contadini russi morivano di fame ed invitavano Tolstoj a farsi carico delle loro rivendicazioni, la moglie metteva alla luce il tredicesimo figlio e impediva al marito di beneficiare dei proventi dei libri.

Non solo Masa, la figlia preferita, la discepola più amata di Tolstòj decide di sposarsi, ma anche Tania se ne va per la stessa strada. Il padre le scrive:

«Posso capire che un uomo depravato trovi la sua salvezza nel matrimonio, ma che una fanciulla pura voglia andare in questa galera, questo mi è difficile comprenderlo. S’io fossi una ragazza, non mi sposerei per nulla al modo. Quanto al fatto di essere innamorato, o innamorata, sapendo in che cosa consiste tutto ciò, sapendo cioè che, ben lontano dall’essere buono, elevato e poetico, è invece un sentimento vile e soprattutto morboso – io non l’avrei mai lasciato entrare in me, anzi avrei preso ogni cura e precauzione per non essere contaminato da questa infezione, proprio come se avessi dovuto difendermi da malattie come la difterite il tifo o la scarlattina che sono assai meno pericolose».

Sono trascorsi quasi 130 anni dalla stesura di Sonata a Kreutzer, ma l’attualità che ne vien fuori è sconvolgente.

 

Lev Nikolaevič Tolstòj (Jàsnaja Poljana, 1828-1910), di famiglia nobile, si mostra nella storia della letteratura come un riferimento assoluto. La sua tensione morale e la sua religiosità tormentata sono incarnati in capolavori come Guerra e pace (1863-1869), Anna Karenina (1873-1877), La confessione (1879-1882), La morte di Ivan Il’ic (1887-89), Sonata a Kreutzer (1889-1890), Padrone e servitore (1895), fino all’ultimo romanzo, Resurrezione (1889-1899).

La pandemia come un terremoto.

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Come un terremoto la pandemia da covid ha raso al suolo tutto. Il sistema sanitario, il lavoro, le politiche sociali e l’istruzione. E mentre tutto frana e sprofonda il profitto, il solo e unico sopravvissuto all’immane tragedia, si rafforza ed anzi amplia il suo volume oramai con cifre che superano di molto i nove zeri.

Tra monopattini e bonus vacanze elargiti a profusione anche a quelli che non possono mancare ad una puntatina nella discoteca bi-milionaria in Sardegna, le cure diventano difficili se non addirittura impossibili per quelle migliaia di donne, uomini e bambini che non sanno cosa sia un pasto caldo al giorno. Posti letto pubblici tagliati a favore degli ospedali a 5 stelle (convenzionati?) che costano alle casse pubbliche, e quindi a tutti noi, molto di più di quanto non costerebbero allo Stato. E con quei miliardi prestati a gruppi industriali che hanno delocalizzato le direzioni aziendali e a volte anche la produzione o parte consistente di essa perché la manodopera costa meno, si continua a sottrarre risorse. Sull’altare del profitto si è arrivati anche a sacrificare la vita umana, e in questo non potevano essere esclusi anche gli anziani improduttivi (Toti, presidente della Liguria – ndr), perché le industrie, le fabbriche e le botteghe dovevano rimanere aperte anche se nel frattempo i carri militari trasportavano i cadaveri lontano perché mancavano i loculi nei cimiteri cittadini. Tra scandali di camici e mascherine e guadagni stratosferici degli amici degli amici, vengono a pioggia, senza alcun controllo, regalati gli spiccioli con pacchi alimentari e sussidi che solo un futuro e vicino scandalo ci farà comprendere essere stati donati col cuore a chi ha assicurato o assicurerà il voto prossimo al politico colluso con la malavita.

E il distanziamento fisico, necessario per tenere a bada il virus, si è tramutato ben presto in distanziamento sociale: da una parte i ricchi e dall’altra i poveri. L’apoteosi di questa mai finita suddivisione in classi sociali piramidali, ha generato la lotta fra gli ultimi sempre alla ricerca di chi fosse l’ultimo fra di loro a cui tentare di sottrarre quel pochino che lo fa sopravvivere. Ed è in questo che il grande capitale e la rendita finanziaria è riuscita nella sua mission che sembrava impossibile. Mettere gli ultimi uno contro l’altro a mano armata affinché si sbranassero fra di loro per dividersi il granello.

In questo esperimento mondiale di distanziamento sociale in cui ci siamo accorti che senza quei barconi che fanno navigare manodopera a basso costo senza nessuna tutela e senza la quale sulle nostre tavole non ci potrebbero essere né arance né mele (quelle trentine sono deliziose), la guerra nucleare sparata con i tweet e con i proclami televisivi ci ha fatto smarrire l’importanza del lavoro dei ricercatori, degli infermieri, dei medici che poi scopriamo essere essenziali con Luca Argentero. Povera Patria!

Ma con le scuole che qualcuno vorrebbe rigorosamente chiuse o magari semi aperte all’occorrenza o a piacere, per far pagare in eterno ai giovani gli errori dei padri e delle mamme che inerti sono rimasti mentre il mondo intorno a loro crollava intanto che condannavano senza appello quella madre che per un futuro migliore sacrificava quel figlio nella tomba del Mare Mediterraneo, è difficile e praticamente impossibile che si possano formare quei medici, quegli infermieri e quei ricercatori che sui libri e nello studio possono scoprire i segreti che separano la vita dalla morte. Nel momento in cui ci convincono che basta la mascherina, una lavata di mani e la distanza con il bambino di banco per non essere contagiati e per rimanere vivi, si continuano a costruire senza sosta i caccia bombardieri e le mine e i proiettili e gli elicotteri apache (l’Italia è uno dei paesi al mondo che esporta di più in armamenti) portatori di morte che poi i vari Gino Strada dovrebbero curare.

In un popolo che non sa cosa sia un giornale, un libro o lo studio ci saremmo potuti aspettare qualcosa di meglio?

In attesa del salvifico vaccino che sarà garantito(?) per tutti, le coscienze prive della ribellione all’offesa continua della propria dignità restano in attesa del prossimo dpcm o, i più fortunati, del video in diretta di quel sindacucolo di provincia che spara minchiate.

In copertina una mia foto del terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980.

Le incomprensibili decisioni.

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Molti sono incompresi perché sono incomprensibili.
(Sandro Montalto)

Incomprensibili le ragioni sulle decisioni del sindaco di Casamassima, Giuseppi Nitti, in relazione all’affollamento con conseguente assembramento all’interno del centro commerciale nel fine settimana.

Invece degli 8 metri quadri a disposizione per ogni visitatore/cliente, il sindaco, in intesa con la direzione del centro commerciale, decide di ampliare questo parametro portandolo a 20 metri quadri. In base a ciò, considerata la superficie complessiva del centro commerciale (area vendita Conad, negozi galleria, corridoi), i visitatori/clienti che potranno accedere al sabato e alla domenica non potranno essere più di 2.500 (duemilacinquecento), compreso il personale che ci lavora. Un contatore elettronico conta persone trasmetterà su un display in tempo reale quanti, attraverso ingessi ed uscite contingentate, saranno presenti.

Affinché queste direttive siano rispettate ci sarà l’occhio vigile della Polizia Municipale e dei Carabinieri.

Prima questione.

Per quale motivo impiegare polizia municipale e Carabinieri, sottraendoli ai loro abituali servizi sul territorio, per la vigilanza su un’area privata che fa utili?

Seconda questione.

Considerato che non tutti i negozi della galleria hanno grandi superfici, siamo sicuri che il solo personale che ci lavora basterà a considerare quei locali “saturi” e privi dell’idoneità ad ospitare clienti/visitatori?

Terza questione.

Se in virtù di questi nuovi parametri, le aziende che gestiscono i negozi galleria, decidessero di licenziare qualche dipendente perché in “esubero”, visto proprio lo spazio a disposizione del negozio e considerato un minore servizio al pubblico vista la minor affluenza, su chi ricadrebbero le responsabilità?

Quarta questione.

Quali le certezze che portano a considerare i corridoi dell’intero centro commerciale al di fuori di possibili ed inevitabili assembramenti? Quali gli elementi per scongiurare gran parte dei negozi galleria vuoti e corridoi stracolmi?

I 2.500, compresi i lavoratori, dove si concentreranno?

Quinta questione.

Quante le code e i possibili assembramenti all’esterno del centro commerciale in attesa che il display non dia via libera ai nuovi ingressi?

Capitolo assembramenti all’interno del paesello.

Il sindaco comunica che, così come riferito al Prefetto di Bari, chiede che ci sia più vigilanza sia nei pressi della stazione ferroviaria Sud Est che sul piazzale Nazariantz Hrand (mercato settimanale del sabato), meta di tanti giovani e giovanissimi. Come mai dimentica, come più volte sottolineato dai commenti apparsi sui social, la cosiddetta villa comunale di via Acquaviva e la stessa piazza centrale?

Capitolo Covid.

Come mai i dati forniti dal bollettino regionale sui contagi, a detta del sindaco, non coincidono mai con i dati che fornisce durante le dirette Facebook che provengono, come sostiene, dalla Prefettura? Perché questo continuo disallineamento dei dati che “patisce” Casamassima dall’inizio dell’emergenza sanitaria?

Capitolo scuole.

Perché nonostante sui social i genitori denuncino addirittura che a classi intere non sia stato permesso di frequentare regolarmente, il sindaco Nitti non dedichi almeno uno dei 19 minuti e 18 secondi dell’ultima diretta social di ieri 23 ottobre?

In copertina la foto del centro commerciale di Casamassima che da domenica 18 ottobre ha girovagato sui social.

Nitti, quando ha finito ci dice quando partirà la mensa a scuola?

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E’ più facile giudicare l’intelligenza di un uomo dalle sue domande che dalle sue risposte.

(Duca di Levis)

Non accenna a diminuire la polemica, che partita dall’aula consiliare, si sta trascinando sui social.

Si contesta, al presidente del consiglio Valenzano, di non aver reso possibile che il sindaco Nitti, l’assessora Acciani e l’intera amministrazione, rispondessero alle domande poste durante il consiglio comunale del 29 settembre scorso dal consigliere PD Andrea Palmieri attraverso delle interrogazioni/interpellanze aventi tutte come oggetto la scuola.

Domande che spaziavano dalla sanificazione, ai prodotti utilizzati, alle opere eseguite per garantire il distanziamento sino ad arrivare al servizio mensa e all’utilizzo di quelle aule in affitto in via Lapenna per i piccoli dell’infanzia.

E leggendo gli atti pubblicati dal consigliere Agostino Mirizio, compresa la risposta dell’assessora Acciani, le domande supplementari poste dal Palmieri non sembravano e non sembrano certo peregrine.

Ora non staremo certo a disquisire sul post pubblicato stamani dal sindaco del paesello a sud est sul suo profilo “istituzionale” Facebook visto che gli asini sono così testardi da essere gli unici animali che non «indietreggiano neanche di fronte ai leoni», contrariamente ai cavalli, che lui predilige, che si imbizzariscono.

Ma a parte queste leggi di natura ignorate dal primo cittadino, alcune domande (ahinoi, ci dispiace), sorgono spontanee.

Come mai il sindaco, l’assessora all’istruzione e tutta l’amministrazione comunale, che dicono di aver lavorato tutto luglio e agosto per l’avvio delle scuole, non abbiano deciso, nonostante le interpretazioni regolamentari del presidente del consiglio, di rispondere comunque a quelle domande visto che erano e sono risposte che tutta la cittadinanza si aspetta di ricevere?

Come mai tutta la maggioranza che sostiene questa amministrazione non ha sentito il bisogno di consigliare e di pretendere che si rispondesse a domande che, visto l’impegno estivo profuso, appaiono del tutto semplici?

Possibile che si sia scelta la strada del codicillo e dell’interpretazione regolamentare solo per evitare risposte che, comunque le consideriate, hanno come fine ultimo quello di salvaguardare la salute dei giovani e dei giovanissimi studenti di Casamassima?

E poi, sig. Sindaco, avrà certamente speso del tempo per pensare, scrivere e correggere e poi postare il suo pensiero sul suo profilo, considerato che anche la scelta della foto sarà stata impegnativa, ed allora, le si chiede:

Se invece di perdere tutto questo tempo per un post offensivo e molto poco istituzionale lo avesse dedicato a dare delle risposte certe e certificate, avrebbe o no fatto gli interessi della collettività che si è incaricato di governare?

Le domande continuano ad essere pertinenti; non ci faccia convincere che l’escamotage del regolamento servisse solo ad evitare risposte faticose.

 

Casamassima: la salute dei bambini è una priorità?

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Nonostante la pandemia, nonostante i numerosi nuovi focolai di contagio in tutta la provincia di Bari, all’indomani del rientro a scuola dopo mesi di chiusura e le preoccupazioni di tutti, il presidente del consiglio, Giuseppe Valenzano, ritiene che le interpellanze di Andrea Palmieri aventi per oggetto le scuole non possono essere ritenute urgenti e altresì prive dei requisiti regolamentari. Per questo le esclude dalla discussione facendole rimanere prive di risposta.
Queste le interpellanze del consigliere Palmieri non ammesse:

1^ INTERPELLANZA

In riferimento all’interpellanza del consigliere Agostino Mirizio del 24 settembre u.s (prot. 16978) ed alla risposta scritta dell’assessora Azzurra Acciani (prot. n. 17004 del 24/09/2020) si formulano ulteriori interrogativi.

Specificamente si chiede:
1) Certificazione dell’abilitazione che consente alla COGEIR s.r.l. di effettuare le operazioni di sanificazione;
2) Di conoscere nel dettaglio le modalità e le sostanze/prodotti utilizzati per sanificare i plessi scolastici;
3) Considerato che tutti i plessi scolastici, così come dichiarato dalla COGEIR ed attestato dal Comandante della Polizia Municipale di Casamassima, sono stati effettuati il giorno 19 settembre anche in quelle scuole utilizzate quali seggi elettorali, si chiede di sapere quale il tempo intercorso fra le operazioni di sanificazione e l’accesso ai luoghi interessati dai seggi;
4) Viste le ulteriori sanificazioni del giorno 22 settembre in quei plessi scolastici interessati dalle operazioni di voto che ultimate hanno comportato il ripristino delle aule (smontaggio delle cabine elettorali ed impiantistica conseguente), quale il tempo intercorso fra il completamento della pulizia sanificazione degli ambienti ed il loro naturale utilizzo?
5) Come mai le attestazioni di avvenuta sanificazione da parte della COGEIR (che alleghiamo alla presente), considerato che dovrebbero rientrare fra le comunicazioni ufficiali rilasciate ad un Ente pubblico non presentano né un numero di protocollo in uscita ed un protocollo in entrata da parte del Comune di Casamassima?
6) Come mai mentre scriviamo (26/09/2020 ore 11,30 e sino a che l’albo non è andato off line) sull’Albo pretorio del comune di Casamassima non figurano ancora determine che attestino la richiesta di intervento da parte della COGEIR con il relativo impegno di spesa?

2^ INTERPELLANZA

In riferimento all’inizio dell’Anno Scolastico 2020-2021 nelle scuole Casamassimesi, portando in Consiglio Comunale le istanze di alcuni cittadini, chiedo all’Amministrazione Comunale:
1) Se e quando comincerà il servizio mensa scolastica?
2) Con quali modalità sarà operata la refezione?
3) Sono stati previsti, in collaborazione con i dirigenti scolastici, protocolli specifici per garantire la sicurezza nelle sale comuni, dove i bambini dovranno consumare i pasti e per la distribuzione degli stessi?

3^ INTERPELLANZA

Si chiede di sapere nel dettaglio, in che modo l’Amministrazione Comunale, abbia provveduto all’adeguamento delle strutture scolastiche e quali i beni dati in dotazione alle varie scuole presenti sul territorio con i fondi, allo scopo destinati dal Governo Conte.
Inoltre si chiede di conoscere, l’esito degli incontri, se ci sono stati, di coordinamento fra Amministrazione Comunale e Dirigenze Scolastiche.
Si chiede infine di sapere, visto che la scuola dell’infanzia Collodi è entrata nella completa disponibilità della dirigenza scolastica, come saranno utilizzati quegli spazi in affitto su via Lapenna, utilizzate come aule scolastiche.

In riferimento agli ulteriori chiarimenti richiesti dal consigliare Agostino Mirizio viene comunicato che avrà risposta scritta dall’assessora Acciani. In segno di protesta Mirizio abbandona i lavori.

Mentre scriviamo il Consiglio Comunale è ancora in corso.

Tanti i motivi per dire NO.

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«Quando si vuole limitare l’importanza di un organo rappresentativo, si incomincia sempre con il diminuire il numero dei componenti».

(Umberto Terracini)

Le decisioni, diminuendo il numero dei parlamentari saranno più veloci; – falso, perché il bicameralismo perfetto sancito dalla Costituzione non lo consente -.

Non troverebbero posto gli assenteisti, i fannulloni e gli scansa fatica; – falso, perché i deputati e i senatori non sono scelti direttamente dai cittadini ma dai partiti che li impongono quando presentano le liste, bloccate -.

La rappresentatività sarà garantita – falso, perché con il taglio dei senatori ci saranno regioni, nove, in cui non sarà possibile applicare nessun criterio che la garantisca -.

Il risparmio di 60 milioni all’anno potrebbe essere utilizzato per opere di pubblica utilità al servizio della collettività…

E siccome gran parte del dibattito, populista, demagogico e retorico si base come un mantra proprio sul risparmio per le casse statali, cerchiamo di sfatarlo.

Cosa si potrebbe realizzare di faraonico con lo 0,0000258% di risparmio annuale sugli stipendi di deputati e senatori?

Cosa riusciremmo a fare con un caffè al giorno?

E per risparmiarne 10 di caffè al giorno, non sarebbe allora meglio abolire del tutto la Camera dei Deputati e il Senato ed eleggere un re o un dittatore che da solo possa decidere nel bene e nel male le sorti di tutti?

Di esperienze passate ne abbiamo fatte: vogliamo ripeterle?

Ma se non vogliamo un re ma vogliamo risparmiare, non sarebbe stato più facile diminuire gli stipendi di lor signori di un netto 36% all’anno invece di diminuirne il numero?

Misteri della politica.

E poi, considerato che non siamo in guerra, per fortuna (?), non si potrebbe risparmiare qualcosa sulle spese militari che ammonteranno nel 2020 all’1,43% del PIL?

26 miliardi contro 60 milioni.

Ma la risposta più convincente l’abbiamo trovata, incredibile a dirsi, proprio nella data in cui saremo chiamati alle urne per decidere se approvare o no la riforma costituzionale che i partiti – quasi tutti da destra a sinistra -, ci vogliono propinare.

La risposta nel 20 settembre 2020, il centocinquantesimo anniversario della Breccia di Porta Pia?

Si, proprio il 20 settembre del 1870 allorquando si riconquista la laicità dello Stato.

Festività e ricorrenza nazionale, abolita dal fascismo di Mussolini che con il Concordato del febbraio 1929, male si adattava a quella sudditanza culturale, politica ed economica, ribadita in seguito dall’altro socialista Bettino Craxi nel 1984, di cui oggi l’Italia, unico Paese al mondo, si fregia di conservare.

Cosa centra il Concordato, la Chiesa e la Repubblica Italiana con la lotta allo spreco che tutti oggi a parole dicono di volere per il bene supremo dei cittadini?

Bene, ci costa più di 3 miliardi all’anno.

A tanto ammontano le spese che gravano sui cittadini italiani, bambini compresi, che vanno a beneficio dello staterello oltre il Tevere.

5 milioni all’anno per le bollette di acqua e di luce del Vaticano,

35 milioni per gli assistenti religiosi negli ospedali, 20 milioni per i cappellani nelle Forze Armate, 9 milioni per quelli in Polizia, 6 per quelli nei cimiteri e 8 per quelli all’interno delle carceri. I cittadini italiani, come se non bastasse, pagano anche gli stipendi degli insegnanti di religione (scelti dalle Curie) disseminati in tutte le scuole di ogni ordine e grado per un miliardo e duecento cinquanta milioni di euro all’anno.

Se a questo dovessimo aggiungere anche il miliardo che il Vaticano riceve da quel 8 per mille di tasse versate dai cittadini, il quadro sarebbe completo?

E dove sono le lotte di tutti questi fini costituzionalisti che, a maggioranza variabile, vogliono cambiare la Costituzione per risparmiare sulla democrazia e poi non applicano sentenze della Corte Europea, aggiungendo al danno la beffa, perché non vogliono recuperare quei 14 miliardi di euro di Ici e Imu – comprese altre decine di tasse che comunque i cittadini pagano – mai versate dal Vaticano allo Stato Italiano?

Che cercando vari espedienti si voglia completare quel piano di Gelli di smantellare la Costituzione e lo Stato Democratico in favore di un presidenzialismo così caro alle destre che nell’uomo forte e solo al comando possa magari riportarci in guerra con la Libia passando da Algeri, sembra sia chiaro a tutti, ma che una classe politica incapace chieda al popolo di intervenire affinché si abbattano le possibilità che vengano eletti imbecilli che essa stessa propone e che ci fa trovare in lista senza possibilità di scelta, sembra criminale.

Si dovrebbe chiedere di essere rappresentati meglio e non meno.

In copertina NO di Mario Schifano (1960).

Le fake news del sindaco Giuseppe Nitti.

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Il sindaco di Casamassima, Giuseppe Nitti, ieri, 28 agosto, scrive sul proprio profilo facebook:

Le scuole sono una priorità!

Abbiamo lavorato intensamente a luglio e agosto al fine di ottenere un finanziamento di €90.000,00 per interventi di adeguamento e di adattamento funzionale degli spazi e aule didattiche in conseguenza dell’emergenza sanitaria da Covid 19.

Da un controllo risulta che proprio la dizione «abbiamo lavorato intensamente a luglio e agosto al fine di ottenere un finanziamento di €90.000,00» risulta essere una notizia non veritiera.

Infatti il sindaco non ricorda che il 7 luglio 2020 il Ministero dell’Istruzione pubblicava la graduatoria per l’accesso ai fondi per l’edilizia “leggera” in cui figurava anche Casamassima, insieme ai circa 8000 comuni italiani, per un importo pari a 90 mila euro.

Il sindaco, inoltre, non ricorda, che il sito istituzionale del comune, nella stessa data, 7 luglio 2020, informava di essere beneficiario di un finanziamento pari a 90 mila euro.

Tale finanziamento sarà utilizzato per l’adeguamento degli spazi scolastici a seguito del Covid-19.

Quindi questi fondi, giunti decisamente molto prima del consueto periodo che si dedica alle ferie non sono stati causa di notti insonni o lavori straordinari come il sindaco vorrebbe far intendere.

Ma c’è di più.

Il 31 luglio 2020, il sindaco ancora non ricorda, di aver controfirmato la delibera di giunta n. 92 in cui si procedeva ad una variazione di bilancio in cui si introitavano contabilmente quei 90 mila euro per l’adeguamento e l’adattamento funzionale degli spazi e delle aule didattiche in conseguenza del Covid-19.

Alla luce di ciò, nessun lavoro intenso a luglio e agosto per ottenere tale finanziamento che, attraverso solo l’analisi di atti controfirmati dallo stesso sindaco, risulta essere molto antecedente il periodo di ferie che il sindaco e i suoi assessori ci auguriamo abbiano potuto usufruire normalmente.

A queste contestazioni il Nitti prima fa riferimento a ipotetici fondi comunali, di cui mai nessuno ha parlato e poi, come si fa abitualmente quando si viene scoperti sporchi di nutella quando la mamma te l’ha vietata, balbettando l’odio nei suoi confronti, la butta in caciara facendo riferimento ad un art. 2 di un PON che con questo preciso finanziamento di 90 mila euro non centra nulla.

Ora, che il sindaco abbia mille problemi e che qualcosa gli possa sfuggire è fuori di dubbio, ma è credibile che siano sfuggiti anche all’addetto stampa personale?

Caro sindaco Nitti, l’odio, come l’amore, suo naturale contraltare, sono sentimenti profondi che meritano attenzione e partecipazione attiva. Perché lei è così presuntuoso da credere di suscitare un tale sforzo emotivo da parte di tutti noi?

Non le viene in mente che la critica e la contestazione possano essere il sale della democrazia? Capiamo che facciano piacere i bravo, bene, bis, ma ogni tanto, da uomo politico, consideri anche che chi la segue, oltre leggere quello che lei firma, vede i TG, compra i giornali e si informa e non assorbe passivamente l’informazione che i sindaci amano vergare sui social per un facile e acritico consenso.

Comunque, per rimanere sul tema scuole, la Collodi è entrata nella piena disponibilità della dirigenza scolastica? Le bambine e i bambini che fanno scuola in quei locali alla strada in via Lapenna avranno finalmente una scuola vera? E le aule dell’istituto superiore saranno o no utilizzate ancora per ospitare gli studenti del paesello?

Buona giornata a tutti.

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